Non cantare, spara. Cosa hanno in comune 4 sparatorie in pochi giorni negli Stati Uniti

Non cantare, spara. Cosa hanno in comune 4 sparatorie in pochi giorni negli Stati Uniti

Nell’ultima settimana negli Stati Uniti quattro sparatorie con un morto e quattro feriti più o meno gravi hanno avuto un’eco su tv e giornali italiani per l’assurdità della causa scatenante. Sono solo una piccola parte di quello che succede negli Usa: il bilancio è di una guerra, con 134 morti uccisi (o morti suicidi) per colpi di arma da fuoco, di media, ogni giorno. Ma seguendo il racconto di queste quattro storie si rivela un filo conduttore, quello di una “cultura delle armi” che non è di tutti i cittadini degli Usa, ma — al contrario di quanto si potrebbe credere — di una parte numerosa ma minoritaria della nazione. Una cultura per la quale viene considerato normale possedere armi, portarle con sé, usarle. Ecco come si è arrivati a questo orrore

L’articolo di STEFANO RIZZO

IN UNA SETTIMANA sono state quattro le sparatorie che hanno funestato gli Stati Uniti, quattro sparatorie con un morto e quattro feriti più o meno gravi. Si dirà: e allora? Ogni giorno in America muoiono in media 134 persone per ferite da armi da fuoco (48.000 in un anno); dall’inizio dell’anno ci sono state 165 stragi, più di una al giorno, con almeno quattro morti compreso lo sparatore — ragazzi, uomini, donne, bambini falciati per lo più con un fucile automatico.

E allora? cosa hanno di eccezionale le sparatorie della scorsa settimana? Innanzitutto il fatto che si tratta di eventi assolutamente casuali non legati alla criminalità; in secondo luogo che sono stati perpetrati da persone normali, cittadini integerrimi, non noti psicopatici con qualche fantasioso motivo per uccidere; in terzo luogo a compierli sono stati bianchi, neri, ispanici — così come le vittime — e quindi è difficile cogliere un comune denominatore razziale, che pure con tutta evidenza esiste in molti altri casi; infine un altro fattore interessante collegato al primo: le sparatorie non sono avvenute in qualche quartiere degradato dello spaccio e della prostituzione (quei contesti che siamo abituati a vedere nei film), ma nei luoghi cari alla Middle America: una zona rurale, un parcheggio di un centro commerciale, il vialetto di una casa suburbana.

Elenchiamole queste sparatorie perché sono davvero impressionanti:

13 aprile, quartiere residenziale alla periferia di Kansas City (Missouri). Intorno alle 10 di sera un ragazzo nero, Ralph Yarl, studente di ingegneria chimica all’università, va a prendere il fratellino più piccolo che era andato ad una festa. Sale a piedi lungo il vialetto e suona il campanello. Ma è la casa sbagliata. Il proprietario, un bianco di 84 anni, lo vede attraverso la porta a vetri e senza fare domande gli spara. Alla polizia dirà che temeva che volesse rapinarlo. Ralph sopravvive miracolosamente nonostante vari colpi di arma da fuoco, di cui uno alla testa.

15 aprile, campagne nel nord dello stato di New York. Sono circa le 10 di sera. Un gruppo di ragazzi con due macchine e una moto sta cercando il posto dove dovrebbe svolgersi una festa. E’ buio, le strade sono sterrate e nella  zona non c’è segnale telefonico così che non riescono a trovare la casa. Una delle macchine si infila per sbaglio nel vialetto di una casa. Quando il guidatore capisce che non è quella giusta fa marcia indietro, ma è troppo tardi. In quel momento il proprietario, un bianco di 65 anni, esce di casa e incomincia a sparare. Tutti scappano, ma una delle due macchine viene colpita. Kaylin Gillis, una ragazza bianca di venti anni che è seduta accanto al guidatore, viene ferita a morte.

18 aprile, quartiere residenziale di Gastonia, una cittadina della Carolina del Nord. E’ pomeriggio, una bambina bianca di sei anni sta giocando a palla nel cortile di casa propria. Ad un cero punto la palla le sfugge di mano e finisce nel giardinetto della casa accanto dove vive Robert Louis Singletary, un nero di 24 anni. Singletary si arrabbia e urla qualcosa alla bambina. Il padre assiste alla scena dalla finestra di casa dicendo all’uomo di non prendersela con una bimba di sei anni. Singletary rientra in casa, prende un’arma da fuoco, esce sul porticato e spara alla bambina e ai genitori, che rimangono feriti, fortunatamente in modo non grave.

18 aprile, un parcheggio di un supermercato alla periferia di Austin nel Texas. Poco dopo la mezzanotte da una macchina scendono due ragazze bianche che ritornano dalla palestra dove hanno fatto pratica di cheerleading (performance acrobatiche e ginniche per sostenere la propria squadra di football). Si dirigono verso la macchina di una di loro per tornare a casa, ma è la macchina sbagliata. Quando si accorgono che è occupata da un uomo seduto nel sedile del passeggero chiedono scusa e fanno per allontanarsi. Ma l’uomo, Pedro Tello Rodriguez, un nero ispanico di 25 anni, esce dalla propria macchina e spara cinque colpi in quella delle ragazze. Una delle due, Heather Roth, bianca, è ferita lievemente; l’altra, Payton Washington, nera, è ferita in modo grave e viene trasportata d’urgenza in elicottero in ospedale.

Per cercare di dare una spiegazione a fatti di sangue che non rientrano né nella “normale” violenza criminale, né nell’altrettanto normale psicopatologia di stragisti occasionali, alcuni hanno avanzato la cosiddetta “dottrina del castello”, di onorata tradizione medievale inglese, secondo la quale ognuno ha il diritto di difendere la propria casa da un’aggressione, anche usando la forza letale. Quasi tutti gli stati degli Stati Uniti hanno leggi in materia, ma c’è un problema. Perché il “difensore del castello” sia esonerabile deve esservi la ragionevole percezione di una minaccia, ed è difficile pensare che il giovane Ralph, che aveva suonato il campanello, o i ragazzi che nelle campagne dello stato di New York non erano neppure scesi dalla macchina, potessero rappresentare una concreta e imminente minaccia per gli occupanti tale da richiedere l’uso di armi da fuoco.

Altri hanno avanzato un’altra dottrina, che ha le sue radici nel Far West, quella del diritto a non essere allontanato da dove ci si trova. Se entri in un saloon non puoi dire all’avventore che sta bevendo al bancone di levarsi di torno, e se provi ad allontanarlo lui ha il diritto di spararti. Si chiamano leggi “Stand Your Ground” e circa tre quarti degli stati americani le hanno nei propri codici penali. Anche qui però il problema è che nessuna delle vittime voleva cacciare lo sparatore da dove si trovava. Si è trattato di errori in buona fede, non di minacce, né tanto meno di intrusioni, ai quali gli occupanti delle case e della macchina hanno risposto sparando senza fare domande.

Qual è allora la causa di questa assurdità nell’assurdità? Una soltanto: il radicarsi sempre più di una “cultura delle armi” per cui viene considerato normale possederne, portarle con sé, esibirle e sparare a totale discrezione. Le leggi statali e quelle federali lo consentono e l’opinione pubblica lo accetta. Anche la statistica, di per se allarmante, secondo la quale ci sono 120 armi da fuoco ogni 100 abitanti (bambini compresi), non dice molto. Più significativo è vedere come sono distribuiti e tra chi questi circa 400 milioni di pistole e fucili. Si scopre allora che non tutti gli americani sono armati. In realtà solo un terzo dichiara di possedere un’arma da fuoco per i più svariati motivi (caccia, difesa personale, tirassegno). Si tratta della metà dei maschi bianchi adulti, di un quarto delle donne bianche, di solo un quarto (contrariamente a quanto viene percepito) dei maschi neri adulti e di circa il 15 per cento delle donne di colore

Guardando il dato alla rovescia, due terzi degli americani adulti, nonostante la pervasiva cultura delle armi e le pressioni della lobby dei fabbricanti e della National Rifle Association, non possiede armi da fuoco: o non va a caccia, o non va al poligono a sparare, o non ritiene di averne bisogno per difendersi. E allora perché, nonostante tutto ciò, circolano sempre più armi, i singoli stati non hanno alcuna intenzione di regolamentarle, il governo federale è impotente (ammesso che voglia fare qualcosa) e la massima autorità giuridica del paese, la Corte suprema, con le sue sentenze liberalizza sempre di più il possesso e il porto d’armi?

La risposta, avrebbe detto Bob Dylan sessanta anni fa, soffia nel vento, ma è il vento — il vento di un cambiamento ragionevole e non-violento — a non soffiare più, ormai da molti anni, negli Stati Uniti d’America. © RIPRODUZIONE RISERVATA