“Niente di vero” di Veronica Raimo. La famiglia, l’amicizia, l’amore: cantano attraverso la lente della vergogna

“Niente di vero” – Veronica Raimo, Einaudi 18,00 euro
In questo memoir dall’architettura originale, l’autrice ci racconta la sua famiglia, l’infanzia, l’adolescenza, l’amicizia, l’amore, il mondo editoriale, proprio attraverso la lente della vergogna e delle cose che ci creano imbarazzo “in modo tale da non sentirci mai adulti.” Con una scrittura veloce, pungente, feroce, Veronica Raimo ci prende per mano e ci fa accomodare accanto alla sua cesta, dalla quale, uno dopo l’altro, tira fuori traumi e perdite, affetti e tradimenti, amicizie e disillusioni. Con sottile ironia distende davanti ai nostri occhi la vestaglia rossa della madre, la Francesca che rincorre a suon di telefonate i figli in giro per il mondo, governata dalle ansie e dall’emicrania. Liscia alcuni fogli accartocciati, quei dipinti rubati da bambina agli alunni della madre e grazie ai quali si è guadagnata la fama di brava disegnatrice. Appende i vestiti da bambino, riciclati dai cugini e dal fratello, che la facevano sembrare un maschietto
La recensione di SILVIA PIETRANGELI
QUANDO SI APRE “Niente di Vero” della scrittrice Veronica Raimo, pubblicato per Einaudi e finalista nella dozzina del premio Strega , in realtà non si apre un libro, ma una cesta di panni usati e di oggetti imbarazzanti che normalmente finiscono in qualche scantinato o sottoscala del passato, volutamente nascosti. Quel genere di materiale sigillato, che ci trasciniamo dietro da un trasloco all’altro nelle varie maglie dell’esistenza, ma che confidiamo finisca prima o poi nell’indifferenziato senza lasciare troppe tracce
Invece, in questo memoir dall’architettura originale, l’autrice ci racconta la sua famiglia, l’infanzia, l’adolescenza, l’amicizia, l’amore, il mondo editoriale, proprio attraverso la lente della vergogna e delle cose che ci creano imbarazzo «in modo tale da non sentirci mai adulti». Con una scrittura veloce, pungente, feroce, Veronica Raimo ci prende per mano e ci fa accomodare accanto alla sua cesta, dalla quale, uno dopo l’altro, tira fuori traumi e perdite, affetti e tradimenti, amicizie e disillusioni. Con sottile ironia distende davanti ai nostri occhi la vestaglia rossa della madre, la Francesca che rincorre a suon di telefonate i figli in giro per il mondo, governata dalle ansie e dall’emicrania. Liscia alcuni fogli accartocciati, quei dipinti rubati da bambina agli alunni della madre e grazie ai quali si è guadagnata la fama di brava disegnatrice. Appende i vestiti da bambino, riciclati dai cugini e dal fratello, che la facevano sembrare un maschietto. Srotola gli strati di Scottex nei quali il padre l’ha avvolta per un’estate intera, per salvarla dal sudore e dai reumatismi. Accarezza le tutine da neonato regalate dalla madre, a lei che di figli non ne vuole, e l’orologio analogico del padre che non ha mai imparato a leggere.
Ci sono i fazzoletti appallottolati con pezzi di carne fibrosa sputati da Francesca alla cena di Capodanno e il vestito azzurro da angelo, munito di ali, costruito dalla nonna “per spiccare più agevolmente il volo da morta.” Dalla cesta spunta persino il cibo in scatola confezionato prima del 26 aprile del 1986, cioè prima del disastro di Chernobyl, l’unico che il padre volesse che si mangiasse, e tutti i vestiti dei proprietari delle case in cui è stata ospitata e che lei indossava di nascosto. E noi siamo lì, affascinati davanti a ogni cimelio ripescato dal passato che ci restituisca una verità, possibilmente posticcia, «sabotata per tornaconto personale», fatta della stessa stoffa delle sciarpe prelevate dai mucchi di stracci nei mercatini rionali e rivenduti da Veronica come pezzi di artigianato per pagarsi un viaggio in Messico. Restiamo in attesa che il dado venga lanciato in aria ancora una volta, sperando nel numero cinque, ma pronti a correggere la sorte nel caso di un numero due, proprio come faceva Veronica con il fratello Christian, in quel gioco di bambini annoiati, inutile o truccato esattamente come la memoria.
E la cosa strana è che più le pagine si riempiono di questi panni usati, di queste amiche perdute e fratelli geniali, amori passeggeri e padri ipocondriaci e più ridiamo, e più ridiamo e più ci assale lo sgomento, perché improvvisamente ogni tessuto, foglio, avanzo, indumento, ci sembra terribilmente conosciuto e familiare, ci sembra uscito proprio dalla nostra cesta, quella chiusa a chiave in soffitta. Contempliamo questo mucchio di ricordi «per niente veri», che somigliano ai nostri, e ci domandiamo cosa resti da fare di loro. Forse, come scrive la stessa Raimo, dobbiamo continuare a fare quello che abbiamo sempre fatto, «a rifilarli di nascosto, spacciarli in giro, promuoverli con zelo», come «venditori porta a porta, imbonitori, in cerca di qualcuno da abbindolare che si abboni alla nostra storia. Scontata, a metà prezzo». E dobbiamo continuare a farlo, ancora una volta, per inventarci e per assolverci. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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