Mobbing sul posto di lavoro, un reato da codice penale. L’Italia tarda ad approvarlo

L’efficienza di un’azienda non può essere raggiunta attraverso la persecuzione e l’umiliazione dei dipendenti, dovendo la tutela del lavoratore in ogni caso prevalere sugli interessi economici. La Convenzione n. 190 del 2019 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro definisce il mobbing in modo molto esplicito: un insieme di pratiche e comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico. In Italia manca ancora una norma che metta fine all’umiliazione dell’uomo ad opera dell’uomo con lo stalking occupazionale
L’articolo di RAFFAELE GUARINIELLO, giurista
LA PRIMA VOLTA che parlai di mobbing fu il 9 febbraio 2000 in un convegno nella Sala del Cenacolo di Montecitorio. Prima di me, un sociologo disse «Fantozzi di tutto il mondo unitevi, la nuova lotta di classe è quella contro il mobbing». Ma una platea fatta di ingegneri, primari ospedalieri, dirigenti, impiegati dell’industria, replicò: «No, Fantozzi con noi non c’entra nulla. Lui era un debole e un servo, noi siamo capaci e preparati: per questo ci discriminano». Toccò a me segnalare la necessità di nuove leggi per porre finire a quella umiliazione dell’uomo ad opera dell’uomo che avviene ogni giorno sul posto di lavoro.
Lo ammetto: per anni ho provato invidia per la Francia. Alla Procura della Repubblica di Torino, alla fine degli anni Novanta, arrivavano denunce su denunce di mobbing nei luoghi di lavoro. Solo che non trovavamo una norma che lo punisse. In Francia, invece, il reato di mobbing era — ed è — espressamente previsto dal codice penale nell’articolo 222-33-2 che da anni punisce l’harcèlement moral, e, in particolare, il fatto di molestare altri mediante condotte ripetute aventi per oggetto o per effetto una degradazione delle condizioni di lavoro atte a ledere i suoi diritti e la sua dignità, ad alterarne la salute fisica o mentale o a comprometterne il futuro professionale. Una norma, tanto per fare un esempio clamoroso tratto dalle cronache, che ha condotto il tribunal correctionel di Parigi alla condanna a un anno di reclusione di un amministratore delegato e di due dirigenti per 19 casi di suicidio, 12 di tentato suicidio e 8 di depressione o interruzione di lavoro tra i dipendenti, con l’accusa di aver degradato le condizioni di lavoro e creato un clima ansiogeno pur di ottenere 22.000 dimissioni volontarie e 10.000 trasferimenti.
Alla fine, ci venne un’idea: l’articolo 572 del codice penale, intitolato — è vero — in origine “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” e poi “maltrattamenti contro familiari o conviventi”, ma che nel testo punisce anche chiunque maltratta una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte. E la Sezione Sesta della Cassazione ci venne dietro per quasi dieci anni, dicendo che il lavoratore versa nella condizione di persona sottoposta all’autorità del datore di lavoro. Solo che dal 2009 pose un limite: le pratiche persecutorie realizzate ai danni del dipendente e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, sia cioè caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole in quello che ricopre la posizione di supremazia. Con un risultato sorprendente: finiscono per essere punibili le piccole (piccolissime) aziende, ma non le grandi aziende nell’ambito delle quali i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono ad essere più superficiali e spersonalizzati come una multinazionale, una banca, un ospedale, un comune. Di qui una domanda imbarazzante: non si produce una diseguaglianza di trattamento sia tra datori di lavoro, sia tra lavoratori?
All’improvviso, però, un’altra Sezione della Cassazione ha imboccato una strada diversa: lo stalking occupazionale, ricondotto nel reato di cui all’articolo 612-bis inserito nel codice penale grazie all’iniziativa dell’allora Ministra delle Pari opportunità Mara Carfagna sotto il titolo “Atti persecutori”, che punisce chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringerlo ad alterare le proprie abitudini di vita. Infatti, con una sentenza del 5 aprile 2022, la Sezione Quinta conferma la condanna del presidente di una S.r.l. proprio per questo reato, per avere, tramite reiterate minacce, anche di licenziamento, e denigratorie, nonché attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare, ingenerato nei dipendenti un duraturo stato di ansia e di paura così da costringerle ad alterare le loro abitudini di vita. E aggiunge un messaggio a ben vedere destinato a tutte le imprese: l’efficienza di un’azienda non può essere raggiunta attraverso la persecuzione e l’umiliazione dei dipendenti, dovendo la tutela del lavoratore in ogni caso prevalere sugli interessi economici.
Il risultato è altamente significativo, in quanto a ben vedere il mobbing viene ad assumere rilevanza penale a prescindere dalla parafamiliarità richiesta dalla Sezione Sesta.
Tocca adesso al Parlamento raccogliere la sfida. Più proposte di legge mirano a introdurre un apposito reato di mobbing, inserendo nel codice penale un art. 612-ter. Solo che l’intento è quello di punire il datore di lavoro, il dirigente o il lavoratore che nel luogo o nell’ambito di lavoro, con condotte reiterate, compie atti, omissioni o comportamenti di vessazione o di persecuzione psicologica tali da compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore. Dove si affaccia un concetto di mobbing che, in linea con la giurisprudenza della Corte di Cassazione, non include le condotte vessatorie tenute in un’unica occasione, né le condotte che, pur non prefiggendosi «un danno fisico, psicologico, sessuale o economico», lo causino o lo possano comportare. Ma ciò è in contrasto con le indicazioni date dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro nella Convenzione 190 del 2019 sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, già resa esecutiva in Italia con la legge 15 gennaio 2021 n. 4, che fornisce una definizione di violenza e molestie nel mondo del lavoro ben più ampia: un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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