Macron e Scholz pensano al “Made in Europe”, Giorgia l’Africana pensa ad «arginare Russia e Cina»
Convocati per celebrare il sessantesimo anniversario del Trattato dell’Eliseo franco-tedesco, il 22 gennaio a Parigi i due governi hanno discusso, in realtà, su come proteggere i loro campioni nazionali, per «riaccendere la locomotiva europea». Una macchina poderosa finita su un binario quasi morto nel ridisegno geopolitico tracciato a Washington nella guerra tra Putin e Biden per interposta Ucraina. E noi? Il nostro campione principale (per fortuna non l’unico) è sempre a caccia di gas da commerciare, facendo — allo scopo — politica estera, economica e industriale per l’intero Paese, con la testa girata all’indietro come quella del suo Cane aziendale. La nostra premier, negli stessi giorni, è andata ad Algeri per dirci — dall’altra sponda del Mediterraneo — che l’Italia si candida a diventare l’hub europeo del gas, come da mesi ripete il suo chaperon Descalzi. Ma anche per «arginare Russia e Cina»: parola di Giorgia l’Africana. “Vaste programme”. Glielo avrà preparato sempre lui, il genio del Cane a Sei Zampe
Questo editoriale apre il numero 34 del nostro magazine distribuito nelle edicole digitali dal 25 gennaio 2023
L’editoriale di IGOR STAGLIANÒ
IN ATTESA CHE l’Fbi finisca di frugare negli alloggi e negli uffici frequentati dal Presidente degli Stati Uniti, alla ricerca di documenti classificati, nascosti qui e là per fini — supponiamo — non propriamente filantropici, si possono già misurare gli effetti dell’Ira (Inflaction Reduction Act) di Joe Biden, ben più rilevante nella parte di mondo che ci riguarda direttamente. Il mese scorso, nel numero 33 del nostro magazine, ci siamo soffermati sull’argomento ignorato sino a ieri dall’informazione mainstream ed oggi in prima pagina. Nella nostra riflessione plaudivamo alla svolta green della politica industriale americana e all’abbandono dell’ordoliberismo nella politica economica d’Oltreoceano. La libertà di mercato è diventata il principio organizzatore e regolatore dello Stato nell’intero Occidente. E, per dirla alla Foucault, da mezzo secolo «lo Stato è sotto sorveglianza del mercato, anziché il mercato sotto sorveglianza dello Stato». Che sia finita? Non mancheremo di vederlo. Cosa sta avvenendo da qualche mese in qua lo possiamo vedere già subito.
Peter Carlsson, amministratore delegato di Northvolt, azienda svedese nella produzione di batterie per auto elettriche, è pronto a lasciare il Vecchio continente con un argomento stringente: «Se costruissimo una gigafactory negli Stati Uniti potremmo ricevere fino a 800 milioni di aiuti. Una cifra quattro volte superiore a quella offerta dal governo tedesco». Senza contare che Oltreoceano il costo dell’energia è molto più basso che in Europa, come effetto della guerra in Ucraina. Anche Thomas Schaefer, numero uno della Volkswagen ha usato parole altrettanto esplicite: «Se, per costruire una fabbrica di batterie in Europa, un kilowattora di elettricità costa 15 centesimi, in Cina e in America 2-3 centesimi, non siamo nella posizione di dire, in base alla normativa sulle società per azioni, che lo faremo qui per solidarietà». Più chiaro di così?
Gli esempi possono continuare. Solo un altro in campo aeronautico, sui sussidi americani forniti alle aziende impegnate in programmi energetici a zero emissioni di carbonio, come l’idrogeno verde. Soffermiamoci a questo punto, per brevità, sulla questione posta da Emmanuel Macron dopo la visita a Washington ai primi di dicembre, dietro lo schermo del sostegno militare all’Ucraina. Eccola: «Quando due superpotenze sovvenzionano pesantemente alcuni settori, si può decidere di non fare nulla, di rispettare le regole e la purezza della dottrina del libero mercato, ma alla fine non rimarrà molto in Europa». Eh già. Di fronte alla concorrenza di Stati Uniti e Cina, per attrarre sul proprio territorio le imprese della green economy, se l’Europa sta ferma la sua politica industriale muore. Chiaro no?
Ed è stato questo il punto vero all’ordine del giorno dei due Consigli dei ministri congiunti di Francia e Germania riuniti insieme a Parigi domenica 22 gennaio. Convocati per celebrare il sessantesimo anniversario del Trattato dell’Eliseo franco-tedesco, i due governi hanno discusso, in realtà, su come proteggere i loro campioni nazionali, per «riaccendere la locomotiva europea», ha affermato Olaf Scholz. Una macchina poderosa finita su un binario quasi morto nel ridisegno geopolitico tracciato a Washington. E noi? Il nostro campione principale (per fortuna non l’unico) è sempre a caccia di gas da commerciare, facendo — allo scopo — politica estera, economica e industriale per l’intero Paese, con la testa girata all’indietro come quella del suo Cane aziendale. Con Draghi (e, prima, con Conte) il capo dell’Eni ha portato a spasso fra dittatori e autocrati africani ministri degli Esteri e della Transizione energetica. Un training tanto efficace da aver già ottenuto un risultato strategico: eradicare dalla denominazione del ministero il termine “Transizione” divenuta “Sicurezza” all’insegna — poteva essere diverso? — del dominio fossile.
Per cui, sia benvenuta l’accelerazione di Joe Biden sulla svolta green del suo apparato industriale, se già serve a scuotere l’Europa dal cul de sac in cui l’ha cacciata la guerra tra Putin e Biden per interposta Ucraina. Dei temi discussi con Scholz, Macron ne avrebbe parlato anche con la nostra premier in vista del Consiglio Europeo di febbraio. Non è noto cosa abbia replicato Roma alle sollecitazioni di Parigi, per traguardare la transizione verde al 2030 col “made in Europe”. Possiamo solo ipotizzare che, difficilmente, se ne saprà qualcosa prima che il dominus dell’Eni abbia istruito la pratica. Sappiamo però che Giorgia Meloni va ad Algeri e a Tripoli per dirci — dall’altra sponda del Mediterraneo — che l’Italia si candida a diventare l’hub europeo del gas, come da mesi ripete il suo chaperon. Ma anche per «arginare Russia e Cina»: parola di Giorgia l’Africana. “Vaste programme”, come si vede. Glielo avrà preparato sempre lui, il genio del Cane a Sei Zampe. Da cui pendono, a bocca spalancata, frotte di cronisti scodinzolanti. Appagati da tanto ben di dio pubblicitario (per i loro editori). © RIPRODUZIONE RISERVATA
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