La schiavitù nel mondo del lavoro: la realtà di un dramma, la svolta della Cassazione
Con la sentenza del 2 maggio scorso (la n. 17095), la Suprema Corte afferma che, ai fini della sussistenza dello stato di soggezione della vittima, non è necessaria la totale privazione della sua libertà personale, ma soltanto una significativa compromissione della sua capacità di autodeterminazione. Annulla l’assoluzione in appello degli imputati e spiega che la descrizione del fatto svolta nella sentenza di condanna di primo grado fa emergere la sussistenza di tutti gli elementi integrativi della ‘servitù sostanziale’. 51 pagine ricche di analisi che rappresentano un punto di svolta nella giurisprudenza italiana, in linea con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. La Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia saprà tenerne conto?
L’analisi di RAFFAELE GUARINIELLO, magistrato
«LE ANALISI E le proposte della relazione finale sono il punto di partenza per lasciarci alle spalle il mondo di ieri e per vincere le sfide di domani». Sono le impegnative parole che leggiamo nell’esordio della Relazione approvata il 20 aprile 2022 dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati. In effetti, più di un’analisi e più di una proposta appaiono di alto profilo, a cominciare da quelle dedicate al caporalato. Solo che per quanto riguarda le «forme di schiavitù e di servitù», la Commissione Parlamentare si limita ad evocare un asserito «gigantismo penale» di quell’articolo 600 del codice penale che punisce il reato di “riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù”, quasi che si trattasse di fenomeni ormai improponibili nell’attuale mondo del lavoro.
Il fatto è che proprio in questi giorni la Cassazione ha impietosamente dissipato ogni illusione in proposito. Tutta da leggere, e da rendere nota, è la sentenza del 2 maggio 2022 n. 17095 che annulla con rinvio l’assoluzione pronunciata in appello dopo una condanna in primo grado di più imputati per questi due reati commessi in diverse parti del Sud Italia:
– associazione per delinquere prevista dall’articolo 416 del codice penale, finalizzata al reclutamento di cittadini extracomunitari per la maggior parte tunisini e ghanesi introdotti clandestinamente in Italia oppure presenti irregolarmente sul territorio nazionale, da destinare allo sfruttamento lavorativo nella raccolta di angurie e di pomodori ed a tal fine mantenuti in condizione di soggezione continuativa; associazione, pertanto, diretta alla commissione di più delitti tra cui quelli di riduzione in schiavitù;
– e, appunto, riduzione in schiavitù prevista dall’articolo 600 del codice penale, perché riducevano e mantenevano numerosi cittadini extracomunitari, di nazionalità prevalentemente tunisina, ghanese e sudanese, in stato di soggezione continuativa, condizione analoga alla schiavitù, costringendoli a prestazioni lavorative nei campi in condizioni di assoluto sfruttamento; una volta reclutati dai caporali, in diretto contatto con le aziende richiedenti manodopera in agricoltura, i lavoratori, suddivisi in squadre, venivano sottoposti a ritmi ‘sfiancanti’ per 10/12 ore al giorno, senza riposo settimanale, nella maggior parte dei casi in nero, percependo compensi di gran lunga inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali e comunque, inadeguati ed erano ospitati in casolari abbandonati e fatiscenti, privi di servizi igienici ed arredi, e costretti a corrispondere prezzi eccessivi e spropositati per la fornitura di alimenti e bevande e per il trasporto sui campi, trattenuti sulla ‘paga’; sfruttamento attuato mediante approfittamento della vulnerabilità legata alla condizione di cittadini extracomunitari irregolari delle vittime e mossi dal bisogno; minaccia di perdere il posto di lavoro in caso di ‘ribellione’ e sottraendo loro i documenti.
In 51 pagine ricche di analisi, la Cassazione giunge ad insegnare che l’articolo 600 del codice penale prevede un delitto consistente alternativamente nella condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario, ovvero nella condotta di chi riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa costringendola a prestazioni — ivi comprese quelle lavorative — che ne comportino lo sfruttamento. Dice che, ai fini della sussistenza dello stato di soggezione della vittima, non è necessaria la totale privazione della sua libertà personale, ma soltanto una significativa compromissione della sua capacità di autodeterminazione. Spiega che la descrizione del fatto svolta nella sentenza di condanna di primo grado fa emergere la sussistenza di tutti gli elementi integrativi della ‘servitù sostanziale’. Ravvisa invece nell’assoluzione pronunciata dalla corte d’appello un paradigmatico caso di miopia giudiziaria.
Si tratta di indicazioni coerenti con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo. Ad avviso della Corte Europea, il concetto di ‘schiavitù’ riguarda la condizione di una persona su cui sono esercitati i poteri connessi al diritto di proprietà, mentre il concetto di ‘servitù’ deve essere inteso come obbligo di fornire i propri servizi imposto dall’uso della coercizione e corrispondente ad una forma aggravata di lavoro forzato o obbligatorio. Celebre la sentenza del 30 marzo 2017 sul caso Chowdury c. Grecia, riguardante lo sfruttamento lavorativo di immigrati senza permesso di soggiorno. La Corte Europea ravvisa una violazione del divieto di lavoro forzato o obbligatorio, anche là dove si verifichi una situazione di sfruttamento lavorativo che non abbia carattere di permanenza. E nota come il requisito della volontarietà della prestazione lavorativa debba considerarsi mancante in tutte le situazioni in cui un datore di lavoro abusa del suo potere o trae profitto da una condizione di vulnerabilità dei lavoratori, indipendentemente da un eventuale iniziale consenso da parte della vittima. Sicché, con riguardo al caso specifico affrontato, ritiene che il consenso dei lavoratori ad essere impiegati alle condizioni rilevate non potesse, di per sé, escluderne lo sfruttamento lavorativo, e che la situazione di irregolarità in cui essi si trovavano, privi di risorse e sottoposti al costante rischio di essere arrestati e rinviati nel paese di origine, li poneva in una situazione di oggettiva vulnerabilità di cui i datori di lavoro avevano approfittato. Le autorità greche si erano certamente preoccupate di emanare norme volte a contrastare la tratta di essere umani. Ma nonostante fossero a conoscenza della grave situazione presente nelle campagne anche alla luce delle denunce internazionali, non avevano adottato misure preventive volte ad evitare lo sfruttamento. Inoltre, né le denunce delle vittime furono approfondite, né i datori di lavoro vennero adeguatamente perseguiti.
Più che mai anche su questo fronte confidiamo in analisi e proposte della Commissione Parlamentare. Non per nulla, nella sentenza di questo 2 maggio, la Cassazione non esita a denunciare una situazione di stratificato degrado ambientale ben nota anche alle istituzioni, che, verosimilmente, poco o nulla hanno fatto per porvi rimedio. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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