La parabola di Mancini e il disastro Azzurro. Dov’è finito il cuore grande così?

Mancini aveva risollevato la nazionale dalla polvere per poi riadagiarla esattamente da dove l’aveva presa. Dopo la notte di Wembley, l’undici azzurro, è apparso meno lucido e brillante entrando in una paurosa crisi realizzativa. Tre gol in sei partite (fatta eccezione per la goleada contro la Lituania e le due reti contro il Belgio nella amichevole della Nations League). Una sterilità apparsa in tutta evidenza nelle ultime due uscite, con Irlanda del Nord e Macedonia. Ma oggi c’è una solida base da cui bisogna ripartire, riportando i giocatori italiani nei grandi club, allargando la base in cui far crescere i talenti azzurri
L’articolo di MARCO FILACCHIONE
ORA È IL TEMPO del guai ai vinti, come sempre nei disastri calcistici nazionali. Dagli atrii muscosi dei social, così come dai fori cadenti della critica, è tutto un “io lo sapevo”, “l’ho sempre detto” e via andando. Mancini è un mediocre, aiutato in passato solo da una fortuna sfacciata; Donnarumma un bluff ormai svelato, Immobile è la rovina della patria, tutti gli altri sono degne espressioni di un calcio sfiatato e sorpassato. Non mancano neanche le ironie dei battuti di ieri, primi tra tutti gli inglesi che l’estate scorsa dovettero sopportare il trionfo azzurro a casa loro.
Fallire l’accesso ai mondiali dopo una sconfitta con la Macedonia del Nord rappresenta un tonfo epocale, su questo sarebbe difficile discutere. Tuttavia, insieme a una serie di motivi strutturali, sulla disavventura azzurra ha largamente inciso l’imponderabile. Basti pensare al clamoroso match ball capitato al 90′ di Italia-Svizzera, quando Jorginho (che già aveva graziato gli elvetici dagli 11 metri all’andata) ha mandato alle ortiche il rigore che ci avrebbe portato in Qatar in comodo anticipo. Difficile bollare come catastrofico il cammino di Mancini, che nel suo curriculum azzurro ha aggiunto a 30 vittorie e 13 pareggi soltanto 4 sconfitte, due delle quali arrivate nei suoi primissimi passi da ct. La sua nazionale non è parsa mai in balia degli avversari, tranne che nelle due partite disputate con la Spagna, sia agli Europei (pratica risolta ai rigori) che nella finale di Nations League, affrontata però in inferiorità numerica per 50 minuti.
Nel fresco revisionismo post-naufragio è finito naturalmente anche il trionfo europeo, reputato da più parti un episodio di straordinaria e immeritata fortuna. Analisi bizzarra, visto che (a parte la Francia) gli azzurri sono arrivati al trofeo affrontando le formazioni più forti e gestendo le difficoltà da grande squadra. Con lo stesso metro, però, sbaglieremmo se attribuissimo alla pura malasorte la nostra rovinosa uscita di scena. Dopo la notte di Wembley, l’Italia ha recitato se stessa con sempre minore lucidità e brillantezza, entrando in una paurosa crisi realizzativa. Anche qui, le cifre sono eloquenti: togliendo la facile e inutile goleada (5-0) con la Lituania e le due reti al Belgio nella amichevole finalina della Nations League, l’Italia dopo gli europei ha giocato sei partite, segnando appena tre volte. Una sterilità apparsa in tutta evidenza nelle ultime due uscite, con Irlanda del Nord e Macedonia, unite dallo stesso canovaccio: avversari asserragliati e azzurri impegnati in un ossessivo e sterile possesso palla.
Per risolvere il problema offensivo, Mancini nei mesi scorsi ha giocato più di una carta, fino a indulgere alla soluzione modaiola del “falso nove”, alternando nel ruolo Chiesa, Insigne e Bernardeschi, senza risultati apprezzabili. Al dunque, è tornato ad affidarsi a Immobile, in precedenza assente per infortunio. Il centravanti laziale, oggi bersaglio di tutte le critiche, è nello stesso tempo colpevole e vittima. In Nazionale vive metamorfosi negative, ma è anche vero che le scelte di Mancini non lo aiutano. Il ct ha puntato senza riserve su un tridente offensivo in cui gli esterni giocano, come si suol dire, a piede invertito. Cosicché, il destro Insigne, dislocato a sinistra, prende palla e punta al centro, per liberare il piede “forte”. Così come, sull’altro versante, il mancino Berardi converge per sfruttare il sinistro. In questo modo, contro difese blindate, gli spazi vitali per il centravanti si riducono al minimo. Per questo, l’assenza di Chiesa, l’unico ad avere i due piedi per decidere se puntare il fondo o convergere, è stato un problema serio.
Fra le soluzioni possibili per guarire il mal d’attacco, il ct ha sempre rifiutato quella più “antica”: un bel numero nove alto e grosso, da servire con il classico traversone, quando tutte le linee sono sbarrate. Significativa la completa rinuncia a Scamacca, spedito in tribuna nel match con i macedoni. Più che su motivi tattici e tecnici, però, nell’immediato post disastro si è discusso di temi sistemici: in questa chiave, la disavventura azzurra sarebbe la logica conseguenza di un decadimento ormai in atto da anni. Sempre meno presenti gli italiani nei grandi club, sempre più ristretta la base nella quale crescere i talenti azzurri, anche perché le stesse squadre Primavera sono oggi ricche di ragazzi stranieri. Ma il ritorno a un calcio autarchico non è un’ipotesi realistica, quindi si rischiano discussioni oziose. Meglio, forse, concentrare l’attenzione sulla qualità dei vivai e degli istruttori, e su come fare fronte al progressivo distacco dei giovani dalla fatica del campo.
Temi di largo respiro, che non riguardano in alcun modo la vicenda di Roberto Mancini, bizzarra e irripetibile: ha preso una nazionale nella polvere, l’ha portata in vetta all’Europa, per riadagiarla qualche mese dopo esattamente dove l’aveva presa: fuori dai mondiali. Quattro anni fa, però, la squadra azzurra era un cumulo di macerie, oggi c’è una base per ripartire in fretta. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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