L’informazione con l’elmetto. È la Tv di guerra, bellezza! …E tu non puoi farci niente

L’informazione con l’elmetto. È la Tv di guerra, bellezza! …E tu non puoi farci niente

È un mix fra l’ansiogeno e il lacrimevole, costruito a tavolino per puntare dritto alla pancia e non alla testa del tele-spettatore, per impressionarlo e tenerlo attaccato allo schermo, bombardandolo di notizie ad alzo zero, senza un filtro che le ordini, che ne indichi le priorità e le contestualizzi. La war television, inventata da Peter Arnett, in Italia è condita all’amatriciana, con l’ossessione del ritmo e una girandola di ospiti ridotti a comparse cui viene concessa la parola per una manciata di secondi, senza dar loro il tempo di argomentare e provare a spiegare quello che succede sul campo. Quella in Ucraina è la prima vera guerra combattuta “in diretta” dai belligeranti, sui social media prima che sul campo di battaglia, accessibile senza mediazioni giornalistiche di sorta per conquistare il consenso emotivo degli utenti

L’articolo di AMEDEO RICUCCI
SARÒ FRANCO: LA nostra tv che mette l’elmetto e va alla guerra alla lunga diventa inguardabile. Succede soprattutto in Italia, però, molto meno all’estero, dove i grandi network internazionali stanno “coprendo” questa guerra in Ucraina con la solita sobrietà e competenza, senza il rischio di annoiare, affidandosi da un lato a inviati sul campo che sanno fare il loro mestiere e dall’altro, in studio, a giornalisti senior ed esperti veri di geopolitica e di strategie militari, con cui arricchire il racconto di questa gravissima crisi internazionale ricollocandola nella sua giusta prospettiva — com’è giusto che sia — con le lenti cioè dell’analisi comparata e della storia.

In Italia prevalgono invece il bla-bla-bla e gli effetti speciali. Se non ci credete, prendete in mano il telecomando e fate la prova: vedrete che in nessuno dei grandi network — Bbc, Cnn, France 24, Al Jazeera — c’è una “personalizzazione” della copertura bellica così straripante come in Italia, dove a farla da mattatori indiscussi sono i conduttori dei vari talk-show di (presunto) approfondimento, ineffabili one man show che, con la stessa sicumera con cui hanno discettato nei mesi scorsi i pandemia, il 24 febbraio hanno indossato la divisa e sono lì a stracciarsi le vesti per le sorti del popolo ucraino, sfruttando spesso il suo dolore, in nome dello share. 

Il loro approccio infatti — di quasi tutti — è tutt’altro che sobrio: è un mix fra l’ansiogeno e il lacrimevole, costruito a tavolino per puntare dritto alla pancia e non alla testa del tele-spettatore, per impressionarlo cioè e tenerlo così attaccato allo schermo, bombardandolo di notizie ad alzo zero, senza un filtro che le ordini, che ne indichi le priorità e le contestualizzi. È la tv di guerra, bellezza! Declinata all’italiana, anzi all’amatriciana, condita quasi sempre — fanno eccezione gli Speciali di Mentana su La 7 —  con l’ossessione del ritmo, che porta ad avere una girandola di ospiti ridotti a comparse, in studio e in collegamento, cui viene concessa la parola per una manciata di secondi e senza dar loro il tempo di argomentare e provare a spiegare quello che succede sul campo. 

Viene in mente lo storico Carlo Ginzburg quando diceva che, per capire, bisogna provare «a sottrarsi al rumore incessante delle notizie» e suggeriva di guardare al presente un po’ di sbieco, a distanza cioè, come con un cannocchiale rovesciato. Tutto il contrario di quello che fanno molti tg e quasi tutte le trasmissioni televisive, impegnate incessantemente a rimuginare notizie spesso nemmeno di prima mano, quasi mai contestualizzate come si dovrebbe. Col risultato, paradossale, che più la guerra va in diretta e meno diventa visibile, quanto meno in termini di comprensibilità, inibita dal troppo bla-bla-bla. 

Nemmeno gli inviati in Ucraina — con le dovute eccezioni — sembrano in grado (o vengono messi in grado) di fare il loro lavoro: scarseggiano non a caso i servizi filmati, eppure dovrebbero rappresentare la materia prima di una tv che si rispetti, e d’altronde non ci improvvisa inviati in zone di guerra per avere un quarto d’ora di gloria, né lo si può far bene se non si va in giro a consumare la suola delle scarpe, da veri cronisti, e si sta tutto il tempo in collegamento con i vari tg e le varie trasmissioni su cui si è voluto a tutti i costi “spalmare” la guerra. 

Tranquilli: non durerà a lungo. La war television, soprattutto quand’è concepita così, produce prima o poi una sorta di saturazione. È già successo con tutte le guerre, quelle più lontane e anche quelle a noi più vicine, come quella nell’ex Iugoslavia. Allora si disse che non si poteva turbare più di tanto i pranzi delle nostre famigliole con le immagini delle stragi nei mercati di Sarajevo. E d’altronde non lo si è mai fatto, pur con le ecatombi di civili morti nelle guerre in Siria, Yemen o Afghanistan, tanto per citarne alcune.  Il che rende l’indignazione di oggi in tv a favore del popolo ucraino quanto meno sospetta, se non ipocrita.

A cambiare il racconto della guerra e a costringerci a seguirlo ancora per un po’ può essere forse il fatto che quella che si sta combattendo in Ucraina è la prima vera guerra combattuta “in diretta” dai belligeranti, sui social media prima ancora che sul campo di battaglia, accessibile perciò senza mediazioni giornalistiche di sorta a tutti noi utenti digitali, di cui si cerca di condizionare il consenso a suon di tweet, post, meme e storie. La tv è quindi costretta — se non vuole perdere la sua centralità — a inglobare sempre di più e sempre meglio il flusso di notizie che si sviluppa in tempo reale sui social media. Basti pensare al duello mediatico che si sta combattendo fra Vladimir Putin e Volodymir Zelenski: pare sceneggiato come una serie televisiva e obbliga le tv a mandarlo in onda e a fare da cassa di risonanza, pena lo zapping o peggio ancora il passaggio ai nuovi modelli di fruizione (smartphone, siti web o tablet). 

Sembrano passati anni luce da quando, nel 1991, la Cnn inventò sul campo di battaglia iracheno la war television. Fu allora, con la lunga “diretta” che vide Peter Arnett raccontare il 16 gennaio l’attacco su Baghdad — alle sue spalle c’era la città sconvolta dalle esplosioni e il cielo solcato dai traccianti della contraerea irachena —, che nacque un nuovo genere narrativo a misura di tv: una televisione totale — dissero gli esperti — in cui cioè la produzione delle notizie veniva per la prima volta integrata in uno schema manageriale di altissima efficienza e redditività. La tv andava in guerra, per la prima volta, e la guerra sfruttava il  racconto della tv. Quel patto ha fatto forse il suo tempo, a meno di non rifarne la messa a punto. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Documentarsi, verificare, scrivere richiede studio e impegno
Se hai apprezzato questa lettura aiutaci a restare liberi