L’Ilva e Taranto, l’“ambiente svenduto” e le condanne cancellate: sconcerto di una intera comunità
Venerdì 13 settembre, la Corte d’Assise d’Appello di Taranto ha annullato la sentenza di condanna di primo grado trasferendo gli atti alla Procura di Potenza. Anche i giudici, togati e popolari, erano da considerare parti offese del disastro ambientale. Il processo ora ripartirà nel capoluogo della Basilicata. E bisognerà attendere la decisione del giudice dell’udienza preliminare lucano per capire se vorrà sollevare un conflitto di competenza. Intanto incombe la prescrizione per quasi tutti i reati contestati ai 44 imputati. Il commento di Nicolangelo Ghizzardi, Avvocato generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Taranto fino al 2019
◆ Il commento di NICOLANGELO GHIZZARDI, giurista
► Nel libro “Taranto tra pistole e ciminiere, ieri e oggi. Storia di saghe criminali” (scritto con Arturo Guastella e pubblicato da ‘I Libri di Icaro’), nell’affrontare le tormentate fasi dell’affaire Ilva, forse troppo ottimisticamente scrivevamo che spes ultima dea, frase con la quale i latini intendevano significare che la speranza è l’ultima a morire. E la speranza era che, dopo anni di battaglie condotte su ogni piano, in primo luogo quello giudiziario, si potessero spezzare definitivamente i tentacoli con cui lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa aveva stretto in una morsa mortale Taranto e i suoi cittadini continuando ad esercitare su tutti il diritto di vita e di morte. In tanti avevamo pensato di incominciare a intravedere una flebile luce in fondo al tunnel dei drammi tarantini nella conclusione del processo “Ambiente svenduto” avviato a seguito del sequestro degli impianti nel 2012.
La sentenza emessa dalla Corte di assise di Taranto, all’esito di un giudizio caratterizzato da tempi biblici, forse mai visti in un’aula giudiziaria, aveva, infatti, confermato l’assunto accusatorio per i danni ambientali e sanitari cagionati dalle mefitiche esalazioni dello stabilimento, a carico degli imputati e cioè gli ex proprietari, la famiglia Riva, ed altre 44 persone tra fiduciari, ex manager e rappresentanti della fabbrica, oltre ad amministratori, funzionari pubblici e le tre società proprietarie degli impianti. Ma è ben noto che le battaglie giudiziarie si sa quando iniziano ma non si sa quando finiscono e, soprattutto, non si sa come possano finire. Ed è proprio questo il caso del processo per il disastro ambientale sotto la gestione Riva.
Con la sentenza emessa venerdì 13 settembre, la Corte d’Assise d’Appello di Taranto ha inopinatamente annullato la sentenza di condanna di primo grado trasferendo gli atti alla Procura di Potenza e il processo ora ripartirà nel capoluogo della Basilicata. Allo stato si ha solo conoscenza del dispositivo della sentenza mentre le motivazioni saranno depositate entro 15 giorni. La Corte ha, in sostanza, dichiarato la competenza funzionale del tribunale di Potenza, disponendo la trasmissione degli atti alla procura lucana per i successivi adempimenti. È verosimile che la clamorosa decisione si fondi sull’assunto che i giudici tarantini, togati e popolari, siano a loro volta da considerare ‘parti offese’ del disastro ambientale, vivendo negli stessi quartieri in cui risiedono numerose parti civili che in primo grado hanno ottenuto peraltro il risarcimento, e non abbiano la “giusta serenità” per decidere.
Il fondamento normativo è rinvenibile nell’art. 11 del Codice di procedura penale secondo il quale «i procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge». Sarebbe stata, così, accolta la richiesta dei difensori di spostare il procedimento in quanto i giudici tarantini, togati e popolari, che hanno emesso la sentenza di primo grado, sarebbero a loro volta da considerare “parti offese” del presunto disastro ambientale.
Come da più parti è stato sottolineato, le conseguenze della decisione appaiono devastanti in quanto le condanne sono state cancellate ed il processo, nella migliore delle ipotesi, ripartirà dall’udienza preliminare e tutta l’istruttoria dibattimentale dovrà essere rinnovata. Insomma, al disastro ambientale si aggiunge un vero e proprio disastro giudiziario con il rischio impellente della prescrizione per quasi tutti i reati. Ma, a questo punto, ciò che incuriosisce è stabilire se, in quello che è stato definito un processo monstre, abbiano sbagliato i giudici del primo grado a rigettare l’eccezione di incompetenza funzionale tempestivamente proposta dai difensori o se, di contro, i giudici della Corte di assise di appello si siano lasciati andare ad una applicazione troppo formalistica della norma di legge (summum ius, summa iniuria) trascurando la possibilità di diverse opzioni interpretative come, peraltro, alcune sentenze della Corte di cassazione avrebbero consentito di intravedere.
Ora, dinnanzi alla impossibilità di ricorrere per Cassazione contro la sentenza di annullamento dei giudici dell’appello, dovrà inevitabilmente attendersi la decisione del giudice dell’udienza preliminare lucano che, se lo riterrà, potrà sollevare un conflitto di competenza che è l’unico percorso processuale praticabile per investire della questione i giudici della legittimità. Ma il tutto richiederà, considerata la cronica lentezza della giustizia italiana, tempi molto lunghi che non aiuteranno, certamente, a lenire le ferite inflitte ai tarantini ai quali – e non solo a loro − rimarrà anche lo sconcerto per il clamoroso passo indietro e per i ritardi che ne deriveranno per imputati e parti offese (quelle vere). © RIPRODUZIONE RISERVATA