La guerra di Putin, la teoria dei giochi e il terremoto geopolitico della transizione energetica

L’opzione più promettente per raggiungere l’obiettivo di far implodere la Russia con minori costi per l’Occidente e maggiori effetti su Mosca, non è quella militare, troppo a rischio di escalation (anche nucleare): è quella energetica, basata sulla veloce sostituzione del gas siberiano con altri fornitori. La risposta di Putin punta a terremotare la geopolitica mondiale per garantire alla Russia la rilevanza economica e politica che la corsa alle nuove fonti energetiche la condanna a perdere. Accelerando sull’abbandono delle fonti fossili, l’Europa può sottrarsi a ogni ricatto energetico presente e futuro; quello della Russia, e quello di chi, come l’America, scalpita per prenderne il posto e venderci il gas e il petrolio ricavati, in buona parte, dalla costosissima e disastrosa pratica del fracking
L’articolo di MAURIZIO MENICUCCI
GODONO DI GRANDE popolarità, in questi giorni, tra chat e social, alcuni articoli relativi a un rapporto sulla Russia pubblicato nel 2019 da quello che è forse il maggior osservatorio mondiale di geopolitica: la Rand Corporation, società Usa fondata nel 1948 a Santa Monica, che oggi conta 1500 collaboratori in tutto il mondo, Italia compresa, e che, recita il sito, ‘applica la teoria dei giochi per anticipare lo sviluppo di scenari’. In effetti, lo scenario presentato dal testo originale, molto meglio delle numerose e fuorvianti sintesi giornalistiche, inquieta per la precisione con cui anticipa e descrive quel che sta capitando in Ucraina. Alla prima lettura, è difficile sottrarsi all’impressione che gli analisti della società possano addirittura aver suggerito agli Usa e alla Nato, passo dopo passo, un percorso calcolato per spingere il nuovo Zar a reagire nell’unico modo compatibile con la sua storia personale, la sua psicologia e le attitudini imperialistiche della Russia.
A una seconda lettura, però, il documento appare per quello che è: non un piano operativo, e tantomeno l’ennesima prova del Grande Komplotto della Casa Bianca e dei suoi alleati contro il Cremlino, come pretendono alcuni colleghi, scoprendo l’acqua calda: chiunque, compresi i russi, poteva leggerlo sul sito dell’osservatorio. Si tratta, invece, di un’analisi puntuale e per altro normale — da parte di un think tank vasto e multidisciplinare come il Rand — delle storiche vulnerabilità di Mosca, e degli strumenti in mano a Washington e alla Nato per portarla a sbilanciarsi e a rovinarsi con le sue stesse mani. L’impressione che sia ‘troppo’ preciso, dipende, in realtà, da una semplice constatazione: le debolezze che lo staff di esperti individua nella Russia attuale sono le stesse che negli anni ’80 sempre la Rand aveva indicato come i fattori dell’imminente collasso dell’Urss: la quasi totale dipendenza economica dagli idrocarburi; la necessità di mantenere in piedi un apparato militare sproporzionato rispetto al Pil; la dipendenza dall’estero per un largo ventaglio di prodotti industriali, anche alimentari.
Di nuovo — e più grave, semmai — c’è che mentre i privilegi della nomenklatura sovietica arrivavano al massimo a un Dom Perignon e alla dacia sul Mar Nero, oggi gli oligarchi inviati nel mondo con le tasche piene di rubli da reinvestire nei settori strategici dell’economia globale, emersa e sommersa, quei soldi, e i relativi lussi, li considerano ormai un loro diritto: indurli a cambiare idea e stile di vita, per il loro mandante, potrebbe non essere tanto facile. Nell’analisi della Rand — come si legge anche nelle conclusioni — emerge, tra l’altro, che, dal punto di vista dei tanti paesi che finanziano l’Osservatorio, l’opzione più promettente per raggiungere l’obiettivo di far implodere la Russia con minori costi per l’Occidente e maggiori effetti su Mosca, non è quella militare, troppo a rischio di escalation (anche nucleare): è quella energetica, basata sulla veloce sostituzione del gas siberiano con altri fornitori.
In sintesi, gli esperti della Corporation raccomandavano, da un lato, di estendere e rendere sempre più gravoso l’impegno di Mosca sul versante della deterrenza militare; dall’altro, di sottrarle il mercato degli idrocarburi: appunto, quel che Ue e Usa stanno cercando di fare. A questo punto, dovremmo di nuovo chiederci: avevano davvero visto giusto e lontano, tre anni fa? Non come sembra, e comunque non tutto. Perché Putin ha fatto proprio ciò che loro ritenevano meno probabile: ha risposto all’isolamento non solo brandendo le armi, ma menandole contro Kiev con sorprendente e crescente violenza. Stranamente, di tale isolamento la gran parte degli osservatori tende a sottovalutare proprio quell’impatto negativo come fornitore primario di energia, che per la Russia appare, invece, ancora più strategico e vitale sia di quello territoriale, con il fin troppo enfatizzato accerchiamento della Nato, sia del timore di una ‘contaminazione democratica’ da parte dell’Ucraina. Sotto questa luce, sarebbe logico considerare l’aggressione di Mosca a Kiev e le minacce tutt’altro che platoniche di spingersi oltre, non tanto una riconquista del suolo storico, quanto, e forse soprattutto, una difesa del proprio ruolo economico.
È plausibile, da una diversa angolatura dei fatti, che proprio la sostanziale unità d’intenti raggiunta dalla Cop 26 di Glasgow per uscire dagli idrocarburi e le stringenti scadenze fissate dall’Europa, maggior cliente del metano e del petrolio russi, possano aver dato al Cremlino il segnale che occorresse agire ‘qui e subito’, rompendo indugi e consuetudini. E non certo per bloccare il processo di decarbonizzazione dell’economia mondiale, oggettivamente irreversibile come le sue conseguenze ambientali, ma per guadagnare tempo e intascare più soldi possibile dal gas, strumento obbligato della transizione, facendone lievitare i prezzi. È a questo scopo che Putin sta provando a terremotare la geopolitica mondiale, con la speranza, incarnata dalla Cina e dall’India, che un nuovo bipolarismo sul confine del Pacifico possa continuare a garantire alla Russia la rilevanza economica e politica che la corsa alle nuove fonti energetiche la condanna a perdere.
Ritornando al documento della Rand Corporation, allora, lungi dall’aver anticipato ogni dettaglio dello scenario ucraino, l’errore commesso dai suoi esperti nel non prevedere la furiosa risposta di Putin non è da poco, se non altro per le migliaia di vittime che la folle aggressione sta provocando e provocherà, oltre all’imbarazzante ‘empasse’ in cui si trova la comunità internazionale. Tuttavia, come si dice di tutte le crisi, anche in questa c’è un’opportunità che, se colta, permette di uscirne migliori. Accelerando ulteriormente l’abbandono delle fonti fossili, l’Europa si sottrarrebbe a ogni ricatto energetico presente e futuro; quello della Russia, e quello di chi, come l’America, con l’alibi dell’emergenza, scalpita per prenderne il posto e venderci a prezzi finalmente competitivi il gas e il petrolio ricavati, in buona parte, dalla costosissima e disastrosa pratica del fracking.
Per il resto, auspicando che si raffreddi la foga neointerventista di alcune delle nostre più celebri penne, alle quali per buona sorte fa eco un Parlamento da destra a sinistra insolitamente riflessivo, non ci resta che attendere e vedere chi, tra Mosca e noi, reggerà più a lungo il braccio di ferro delle sanzioni economiche. Ricordiamoci, però che uno dei due impugna una pistola carica e che non c’è un arbitro che possa alzare il cartellino rosso. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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