La guerra di Putin e l’Angelo della Storia, tra il rischio atomico e l’appello all’eroismo di Zelenski

La guerra di Putin e l’Angelo della Storia, tra il rischio atomico e l’appello all’eroismo di Zelenski

Dare armi a chi è aggredito, ci siamo chiesti che vuol dire? quante? di che tipo? per quanto tempo? Se si tratta solo di consegnare agli ucraini l’equivalente di un randello, non li si aiuta. Si aiuta solo Mosca a trovare nella loro resistenza un motivo in più per massacrarli. Il rischio più alto in questo momento non viene dal nucleare militare, ma da quello civile. Con i reattori ucraini contesi a cannonate e la guerra parallela delle false informazioni, possiamo essere certi che l’incidente atomico non giovi a entrambe le parti? Come a Chernobyl e poi a Fukushima, un catastrofico fall out renderebbe inevitabile lo scenario di crisi generalizzato, ed è verosimile che a qualche gruppo di ultranazionalisti ucraini una prospettiva del genere possa apparire preferibile, se l’alternativa è restare da soli sotto le zampate dell’orso russo

L’opinione di MAURIZIO MENICUCCI
NEL CONTRADDIRSI DELLE notizie dal teatro di guerra, e nella crescente difficoltà, obiettivo non secondario di ogni conflitto, di tracciare una linea netta tra bene e male, giusto e ingiusto, a noi che osserviamo, sempre più incerti, se e come partecipare, non resta, realisticamente, che una possibilità. Quella di formulare domande, sperando non certo di indirizzare, ma almeno di piegare un po’ i fatti verso sviluppi meno tragici. In tal senso, anche la possibilità di sottrarre una sola vita alla logica del tanto peggio tanto meglio che può accomunare carnefici e vittime sarebbe già un ottimo risultato.       

La grande questione di fondo — che farà la Cina — resta sospesa, anche se per un bagno di realtà basterebbe ricordare le parole con cui il quotidiano cinese “Renmin Ribao”, il 25 febbraio, (non) annunciava l’invasione: «Xi Jinping parla al telefono con il presidente russo Vladimir Putin»: un titolo, se possibile, ancora più ridicolo dell’«Operazione di Avanzamento» scelto dal russo “Izvestia”. Accantonato, per il momento, il faccione del leader di Pechino, non meno insondabile del faccino di Mosca, dovremmo saltare alle questioni successive. E cominciare a chiederci, ad esempio, se oggi, proprio per il valore che la società moderna annette all’individuo, sia accettabile che un presidente, parliamo di Volodymyr Zelens’kyj, esorti i suoi cittadini a farsi sterminare fino all’ultimo neonato, quando è anche troppo chiaro che, per le intenzioni dell’aggressore e per la disparità delle forze in campo, non potrà che andare così. Prima ancora di noi, non dovrebbe essere lui stesso a domandarsi in che modo la Storia lo ricorderà: come un eroe, o come un leader non meno folle di chi ha scatenato la guerra? 

Su questo punto, mi permetto d’insistere, perché il dibattito mi è sembrato convenzionale e distante dalla realtà: dare armi a chi è aggredito, ci siamo chiesti, in concreto, che vuol dire? quante? di che tipo? per quanto tempo? Perché, se si tratta solo di un ‘beau geste’, di consegnare agli ucraini l’equivalente di un randello, non li si aiuta. Si aiuta solo Mosca a trovare nella loro resistenza un motivo in più per massacrarli e adoperare l’arma atomica non più solo come deterrente. Dovrebbe essere chiaro a tutti che, per la prima volta dai tempi di Hiroshima e Nagasaki, Vlad the Mad fa mostra di volerla e poterla usare, portando, così, nelle paludate simmetrie della vecchia Guerra Fredda quello stesso elemento di novità che rappresenta il punto di forza del terrorismo islamico: la disponibilità, culturalmente inaccettabile per noi, a passare sopra qualsiasi regola e qualsiasi valore, prima di tutto la stessa vita umana, per raggiungere i propri obiettivi.

Il rischio più alto, però, in questo momento non viene dal nucleare militare, ma da quello civile, ed è ancor più affidato al caso, perché non dipende solo dal dito nervoso di Putin, ma da una miriade di mani anche meno accorte. Con i reattori ucraini contesi a cannonate e la guerra parallela delle false informazioni, possiamo essere certi che l’incidente atomico non giovi a entrambe le parti? Come a Chernobyl e poi a Fukushima, un catastrofico fall out renderebbe inevitabile lo scenario di crisi generalizzato, ed è verosimile che a qualche gruppo di ultranazionalisti ucraini una prospettiva del genere possa apparire preferibile, se l’alternativa è restare da soli sotto le zampate dell’orso russo.

Molti commentatori favorevoli a rifornire di armi gli ucraini — tra i quali il teologo Vito Mancuso, che con tormento personale e torsioni erudite mette insieme ‘pacem et parabellum’ — accusano chi si oppone a questo impegno di voler sacrificare la giustizia a una pace iniqua chiudendo gli occhi sulla realtà che vede gli ucraini nell’indubbio ruolo di vittime dei russi. E citano, come Antonio Polito sul “Corriere della Sera”, gli esempi di Byron, che andò a morire per l’indipendenza della Grecia, e di Garibaldi, eroe in campo per le nascenti libertà nel Vecchio e nel Nuovo Mondo. Ma, se è lecito: che cosa c’entra il dovere di dire no all’invio di apparati bellici da parte dei governi, e dell’Unione Europea in particolare, con il diritto dei singoli di correre in soccorso agli ucraini? Sono evidentemente due piani diversi: l’uno attiene agli stati e ai delicati equilibri che ne regolano i rapporti nell’interesse di tutti i cittadini, l’altro, alla libertà di scelta dell’individuo e alle sue responsabilità personali. L’importante è tenerli ben distinti e non fornire appiglio a manovre ambigue e strumentali, nelle quali Putin è maestro, come dimostra l’uso spregiudicato che fa dei mercenari della Wagner, dovunque occorra combattere barando: mostrando, cioè, le mani sul tavolo.    

Un secolo fa il filosofo e storico ebreo-tedesco Walter Benjamin, morto suicida nel 1940 per sfuggire ai nazisti, aveva descritto così l’Angelus Novus, il celebre quadro di Paul Klee. «Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine gli sale davanti fino al cielo. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta».

Non sappiamo se Putin abbia letto Benjamin, ma, in tal caso, è probabile supporre che nella sua blindata megalomania un’improvvisa illuminazione lo abbia indotto a credere di essere lui stesso il Nuovo Angelo, trascinato dalla tempesta verso il futuro. Ma con una differenza enorme: tutto concentrato sul glorioso destino suo e della Grande Russia, l’Uomo del Cremlino non vede la morte e la rovina che sta seminando, né gli importa del posto e, soprattutto della ineffabile compagnia che, in tutti i casi, la Storia gli sta riservando. © RIPRODUZIONE RISERVATA
Aiutaci a restare liberi