La guerra non deve uccidere anche Green Deal, Pnrr e la Politica agricola comune

I problemi economici a breve o a lungo termine generati dalla guerra in Ucraina non si risolveranno aumentando la produzione attraverso un ulteriore degrado dell’ambiente o alimentando la dipendenza dalle energie fossili: serve una riduzione delle produzioni intensive. Lo scrivono in una lettera inviata a Draghi (firmata, fra gli altri, da Associazione italiana agricoltura biologica, Associazione consumatori e utenti). Con il conflitto armato, il governo italiano ha chiesto a Bruxelles l’esenzione temporanea dagli obblighi di rotazione e diversificazione delle colture e uno slittamento degli obiettivi climatici. Come è successo col petrolio, la guerra diventa un alibi anche per alimentare un ingiustificato aumento dei prezzi. Appello di Macron affinché Mosca consenta che sia portata a termine la semina in Ucraina
L’inchiesta di LILLI MANDARA
LO SPETTRO DELLA carestia, la fame nel mondo, soprattutto in quello più svantaggiato come Egitto e Africa del Nord, la sicurezza alimentare tout court sono stati i temi affrontati dai vertici di Bruxelles e dal G7 giovedì 24 marzo. Tanto da indurre Emmanuel Macron a proporre un piano di emergenza per la produzione di cereali con l’obiettivo di contrastare i rischi che potrebbe provocare la guerra in Ucraina, e a fare un appello alla responsabilità di Mosca affinché consenta che sia portata a termine la semina in Ucraina, in caso contrario la guerra provocherà tra un anno, un anno e mezzo, “una carestia ineluttabile” per la mancanza di approvvigionamenti di cereali e di fertilizzanti.
Ed è solo di qualche giorno fa una lettera a Mario Draghi firmata da 17 associazioni di produttori biologici e non e prima ancora un appello di oltre 85 associazioni europee alla Commissione europea per chiedere un momento di riflessione sulle strategie del Green Deal ora che la guerra rischia di mandare a monte tutto, ambiente compreso. Chiedono di affrontare la crisi degli approvvigionamenti, aggravata dal conflitto in Ucraina, senza compromettere la trasformazione dei sistemi agroalimentari e senza usare la guerra come alibi per affossare l’ambiente. L’Europa è vulnerabile e ancora di più lo è l’Italia a causa della dipendenza dalle importazioni di materie prime e di energia. «Più che mai, il nostro Paese nell’ambito dell’Ue deve orientarsi verso pratiche agricole sane, pulite e giuste, che rappresentano l’unica via per garantire la sicurezza alimentare a lungo termine e la sostenibilità generale dei sistemi agroalimentari. Per liberarci da una eccessiva dipendenza dal mercato globale dei fattori produttivi e delle materie prime dobbiamo superare modelli basati sull’agricoltura e l’allevamento intensivi direttamente responsabili delle gravi crisi ambientali che stiamo affrontando e che rappresentano una minaccia incombente sulla nostra società e la sua economia».
Proprio la debolezza dei sistemi agroalimentari europei resa evidente dagli effetti dei cambiamenti climatici, dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina, richiede azioni in grado di garantire una sostenibilità ambientale, sociale ed economica a lungo termine. Gli speculatori sono in agguato e stanno cavalcando e strumentalizzando il dramma della guerra come pretesto per aggredire le strategie “Farm to Fork”.
Un tema sollevato qualche giorno fa anche dal presidente della Cia (Confederazione italiana agricoltori) Dino Scanavino: «Con la guerra in Ucraina, e dopo due anni di emergenza sanitaria, siamo terribilmente ancora nel vivo di uno dei periodi più cupi del III millennio, in cui Pac, Pnrr e ancor più il Green Deal Ue non devono essere messi in discussione. Possono, infatti, emergere con più evidenza come strumenti solidi e fondamentali per tutelare e garantire quella sostenibilità ambientale, economica e sociale, lungamente auspicata e su cui l’agricoltura sta costruendo da tempo il suo futuro e quello globale». Per Scanavino, intervenuto al summit internazionale dedicato a Pac e Green Deal a Verona, è necessario che la sfida green europea «resti una priorità, nonostante l’attuale peso insostenibile dei costi di produzione, ma anche capitalizzando sessant’anni di Pac e riconoscendo finalmente un ruolo centrale all’agricoltura che pesa solo il 7% circa sul totale delle emissioni prodotte che si riversano sull’ambiente. Il contributo del settore alla sostenibilità — ha concluso Scanavino nel suo messaggio al tavolo con le organizzazioni agricole — è e può continuare a essere essenziale, ma ha bisogno di Pnrr e Pac sempre più coraggiosi e innovativi».
Tutti d’accordo quindi sul fatto che non è aumentando la produzione attraverso un ulteriore degrado dell’ambiente o alimentando la dipendenza dalle energie fossili che si risolveranno i problemi a breve o a lungo termine, bensì con politiche che favoriscano una riduzione delle produzioni intensive, come si legge nella lettera a Draghi (firmata da Associazione italiana agricoltura biologica, associazione consumatori e utenti e tanti altri).
E d’altronde in questi giorni in tantissimi hanno manifestato nelle piazze europee contro la guerra ma anche per il rispetto dell’ambiente, compresi i ragazzi dei Fridays For Future. Ciò che temono i giovani è che con l’alibi della guerra vengano bloccati gli sforzi dell’Unione europea per il clima. Pressioni, che erano anche precedenti alla guerra, arrivano dalle lobby dei pesticidi e dai colossi dell’agroindustria. E anche i Verdi hanno nel cassetto una risoluzione da presentare all’Europarlamento perché venga evitato il rinvio degli obiettivi climatici con l’alibi della guerra. Purtroppo in molti fanno leva sulla paura, l’arma che serve a sciogliere ogni tipo di resistenza come diceva il fondatore della Gestapo Hermann Göring, e adesso che l’attacco di Putin ha messo a rischio la nostra sicurezza alimentare insieme alla difficoltà dei trasporti, la siccità, i prezzi alle stelle, è molto più concreta l’idea che si fa strade nell’immaginario collettivo del piatto vuoto a tavola, e più semplice quindi da parte dell’Europa e dei governi fare ciao ciao alle politiche del Green Deal.
Tanto che Mario Draghi pochi giorni fa a Versailles ha sottolineato che la necessità di importare prodotti agroalimentari da Stati Uniti, Canada e Argentina «fa riconsiderare tutto l’apparato regolatorio in virtù dell’emergenza». Il riferimento è anche agli Ogm. E sempre con la scusa della guerra, il governo italiano ha chiesto a Bruxelles una serie di deroghe come l’esenzione temporanea dagli obblighi di rotazione e diversificazione delle colture fino a uno slittamento degli obiettivi climatici.
Ma in ogni caso ciò che emerge con chiarezza, e come è successo d’altronde col petrolio, è che la guerra sia un alibi per alimentare un ingiustificato aumento dei prezzi e per tornare indietro rispetto agli obiettivi climatici, anche se la mancanza di cereali e di fertilizzanti sarà un problema reale a partire da qualche mese. «Da una recente analisi di Ismea sugli impatti della guerra in Ucraina — si legge nella lettera scritta dalle 17 associazioni agricole — emerge che l’aumento dei prezzi dei cereali sia precedente e solo parzialmente imputabile al conflitto in corso e che sia piuttosto legato al calo della produzione globale dovuto proprio ai cambiamenti climatici, in particolare alla siccità che ha colpito il Canada abbattendo la sua produzione di grano duro del 60%. A fronte di questo impressionante calo di produzione canadese, appaiono ridimensionate le percentuali riferite a Russia e Ucraina, i due Paesi in questione sono importanti esportatori di cereali e semi oleosi ma con un ruolo limitato nella fornitura totale dell’Ue».
Secondo l’Ismea è la disponibilità del mais a preoccupare maggiormente, soprattutto a causa della strutturale dipendenza degli allevamenti dal prodotto di provenienza estera. «L’insicurezza del nostro sistema agroalimentare, che condividiamo con il resto dell’Unione Europea — dicono Gianni Cavinato dell’Acu (Associazione consumatori e utenti) e Giuseppe Romano dell’Aiab (Associazione italiana agricoltura biologica) — , dipende pertanto dalla zootecnia intensiva, con oltre i due terzi dei terreni agricoli europei destinati all’alimentazione animale e non a prodotti per il consumo umano. Un’estensione enorme alla quale si aggiungono i terreni coltivati in paesi extra Ue per la produzione di materie prime per la filiera mangimistica, come la soia, spesso a discapito di foreste ed ecosistemi naturali essenziali per tutelare la biodiversità e per difenderci dai cambiamenti climatici».
La soluzione? La riduzione del numero degli animali allevati e la riduzione dei consumi di carne e di prodotti di origine animale. Importare mais da oltreoceano inoltre sarebbe un grandissimo errore, oltre al fatto che la sua commercializzazione in Europa non è possibile a causa degli standard che non soddisfano la legislazione comunitaria; piuttosto sarebbe opportuno sostenere i piccoli agricoltori, quelli più colpiti dalle crisi degli ultimi anni, sostengono sempre le associazioni. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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