“La favola dell’indoeuropeo”, ma come si permette! Scende in campo anche Nostradamus

Quando gli era capitato di leggere “La favola dell’indoeuropeo” di Giovanni Semerano gli era preso un sintomo, avrebbe detto Camilleri. Nell’agile libretto lo studioso aveva esaminato molte centinaia di parole di varie lingue – mai avrebbe usato il termine “indoeuropee” –, per le quali esibiva con sicurezza l’etimo accadico-sumerico. Molte centinaia! A partire da quell’“apeiron”, che innumerevoli manuali di filosofia avevano tradotto come “infinito”, “indeterminato” facendolo ascendere al greco mentre invece era figlio dell’accadico “aperu”, cioè “appartenente alla terra”. Un’interpretazione che capovolgeva molte speculazioni idealiste riconsegnando i primi filosofi greci dell’Asia Minore – Anassimandro era quello dell’apeiron – a una più ragionevole collocazione materialista: terra, acqua, fuoco, aria
Il racconto di HERR K.
DEI SOSPETTI ERANO sorti, agri come il limone, durante la passeggiata sul lido di Sperlonga, in quel tratto che va dal porticciolo sotto la torre Truglia verso la grotta di Tiberio. Il tempo nuvoloso falsificava la realtà di un clima abitualmente benigno e solare, quasi preludendo alla mareggiata di poche settimane dopo, che, sospinta da Ponente, aveva capovolto la barca con cui il suo amico P. era uscito col mono, o quasi, pescatore locale. Un ritorno a nuoto, a dorso per limitare l’invadenza delle acque gelate, fino a quando le braccia avevano impattato con la sabbia dell’acqua bassa. Così gli aveva raccontato. Roba da brividi.
P. era quello con cui erano da tempo divenuti “armatori”, come amavano proporsi con malcelata autoironia da quando avevano acquisito, non ricordava più come, un laser. La barca più piccola e più intelligente, da poco entrata nel palmares olimpico. La prima volta che l’avevano armata sulla spiaggia aveva attirato parecchi curiosi, e due sventole del Nord Europa di una trentina d’anni più giovani e di una decina di centimetri più alte, che avevano chiesto, entusiaste, varie informazioni su come andava sul mare. Ma la risposta, un ovvio invito a provarlo insieme, si era spenta come una sigaretta per un colpo di vento sotto lo sguardo benevolo ma guardingo delle loro rispettive compagne, in osservazione sotto l’ombrellone. Giusto un ricordo, uno dei tanti. P. era morto da poco, e mentre seguiva la breve e austera cerimonia civile non aveva potuto evitare di pensare che gli capitava ormai troppo spesso di girarsi e non trovare più qualcuno con cui aveva condiviso pezzi di vita.
In quella passeggiata lungo il lido, il cielo minacciosamente coperto faceva da sfondo, quasi una citazione dello Sturm und Drang, alla drammatica incertezza che si stava appalesando. La giovane collega che lo accompagnava, infatti, rispondendo a domanda, stava riportando un racconto spiacevole come il venticello che batteva la spiaggia. Il suo fidanzato, un ricercatore anche lui in linguistica, aveva col suo gruppo passato al setaccio, con l’aiuto di un programma numerico costruito ad hoc, l’ipotesi dell’indoeuropeo come lingua ancestrale comune alle lingue europee. Escluse le ugro-finniche, specialità invece della sua compagna di passeggiata. Risultato: ben meno di cento, le parole che potevano essere candidate alla bisogna.
Un colpo duro per chi aveva amato il Rocci, l’ottimo vocabolario di Greco del liceo, non solo per la sua rotonda corposità contrapposta alla spigolosa magrezza dei concorrenti, ma soprattutto perché per moltissime voci riportava l’etimo e, in vari casi, la corrispondente radice o parola in sanscrito.
Aveva abbandonato assai presto il sogno che il sanscrito potesse essere la lingua comune. Bastava vedere che quello più antico era il sanscrito dei Veda, ricco terreno battuto da Calasso come da Guenon, ma inesorabilmente risalente al II millennio avanti Cristo. Bisognava andare molto più indietro e aprirsi all’idea che forse non si sarebbe trovata una madre comune già linguisticamente strutturata e completa, ci si sarebbe dovuti accontentare di parti significative comuni che avrebbero fatto scolorire l’idea stessa di una lingua madre, che magari dall’India si era allargata all’Occidente in tempi protostorici. Ma qui, accidenti, quella miseria di decine di parole, non di più, mandava tutto in malora!
Come insegna la psico-analisi, quando ci piglia, la rimozione è un processo salvifico che nasconde nel non riciclabile quel che per il nostro ego è risultato difficile da metabolizzare. Quei tentativi di applicare un programma di confronto tra lingue diverse chissà su che cosa si erano basati, e poi classificazione delle radici comuni poteva tener conto delle variazioni di fonemi e delle inevitabili apofonie vocaliche? Non era il terreno suo, e poi, vivaddio, Georges Dumezil stava lì, saldo come una roccia. Dall’analisi comparativa dei miti di vari popoli indoeuropei aveva individuato il ripetersi di una comune narrazione che rifletteva una comune visione sociale, anzi “globale” quale rispecchiata, appunto, dai miti. L’aveva riassunta nella tripartizione delle funzioni sociali: il re, la funzione sacrale-giuridica; il guerriero e il produttore, a partire dalla produzione primaria, l’agricoltura. Lasciamo stare le analisi al computer! Era questa la base stessa dell’indoeuropeo, non riscontrabile nelle culture dei vari ceppi sia asiatici che semitici.
Quando parecchi anni dopo gli era capitato di leggere “La favola dell’indoeuropeo” di Giovanni Semerano gli era preso un sintomo, avrebbe detto Camilleri. Nell’agile libretto lo studioso aveva esaminato molte centinaia di parole di varie lingue – mai avrebbe usato il termine “indoeuropee” –, per le quali esibiva con sicurezza l’etimo accadico-sumerico. Molte centinaia! A partire da quell’“apeiron”, che innumerevoli manuali di filosofia avevano tradotto come “infinito”, “illimitato” facendolo ascendere al greco mentre invece era figlio dell’accadico “aperu”, cioè “appartenente alla terra”. Un’interpretazione che capovolgeva molte speculazioni idealiste riconsegnando i primi filosofi greci dell’Asia Minore – Anassimandro era quello dell’apeiron – a una più ragionevole collocazione materialista: terra, acqua, fuoco, aria. E questo Semerano poi, irridendo a più riprese la pretesa dell’indoeuropeo, aveva trovato la madre accadico-sumerica addirittura di molte decine di parole delle lingue scandinave e baltiche. E aveva concluso che se si voleva trovare un’origine comune delle lingue europee, perché andare nella lontana India quando ben da prima la Mesopotamia era stato faro di civiltà e, insieme all’Egitto, madre di parole e di lingue?
Semerano, lungi dall’essere una mezza calzetta, era stato uno studioso assai rigoroso, e colto. Ovviamente osteggiato dal mainstream “indoeuropeista” di linguisti e filologi, per i quali il duro colpo alla lingua madre comune era un po’ come un calcio sotto il sedere delle cattedre e del potere accademico. Fondati su decenni di studi e ricerche, di indubbio valore per molti aspetti, ma nubili di effetti, cioè di parole in grado di testimoniare una lingua antica comune a tutti i popoli definiti indoeuropei.
Lo sguardo perso sul tremolio delle onde ammetteva saltuariamente una visione di Ischia, là in fondo. L’incresparsi di quel moto esercitava su di lui un fascino magnetico, come il fiammeggiare, discreto, dei ceppi in un camino. E sommuoveva ricordi che si presentavano liberi da una programmazione logica. Al più, il rimosso dell’inconscio sempre in agguato. Certo, era una bella pretesa quella del Urheimat, la terra comune del popolo indoeuropeo, generalmente ormai identificata con l’Europa settentrionale. Ma dalla terra comune alla lingua comune ce ne passava! I più esagitati avevano additato la teoria indoeuropea, forse per quella collocazione geografica, come “invenzione etnorazzista e socioclassista”. Bastava, invece, la miseria delle poche parole “indoeuropee” per far capire che i miti, certo, non mentono, ma che la strada del linguaggio era stata più complessa e in qualche modo diversa da quella della costituzione di un pantheon e dell’organizzazione sociale. Era passata, probabilmente prima, per l’Accadico, “la lingua semitica orientale di più antica e vasta documentazione, utilizzata per almeno due millenni in tutto l’antico Vicino Oriente” (Giuseppe Ieropoli).
Così conciliava gli opposti nel dolce elisio sperlongano. Quel viaggio alle Lofoten, col postale che salpa da Narvik non era riuscito a farlo, Dumezil invece sì. Ed era stato il pretesto per regalare ai suoi seguaci, anche quelli contaminati da dubbi sull’indoeuropeo, un divertente racconto, “Le moyne noir en gris dedans Varennes” (Gallimard, 1984), su alcune profezie delle “Centurie” di Nostradamus. Neanche da considerare quella, farlocca perché giocata sul ritardo della pubblicazione, con la quale N. pronosticava la testa di Enrico II trafitta da un’asta nella giostra cavalleresca, celebrata proprio là dove oggi Rue Saint Antoine connette il quartiere del Marais con il centro della città. Ma era impressionante la descrizione di Nostradamus dei luoghi e delle modalità della fuga di Luigi XVI (le moyne noir en gris) e famiglia da Parigi, e del loro arresto a Varennes. E sublime, l’esegesi della centuria da parte di Dumezil. E poi le guerre tra Svezia e Russia del XVIII secolo identificate con particolari strabilianti. E poi, e poi…
Nel libro di Dumezil, pubblicato in seguito in italiano dalla Adelphi, la bravura interpretativa delle “Centurie” cedeva luogo a un capitolo finale, disgiunto e su tutt’altra materia: la morte di Socrate, e una profezia anticipatrice. E, a far luce in qualche modo sulla profezia, la famosa frase che il filosofo rivolge in punto di morte a Critone: «τῷ Ἀσκληπιῷ ὀφείλομεν ἀλεκτρυόνα· ἀλλὰ ἀπόδοτε καὶ μὴ ἀμελήσητε» (Dobbiamo un gallo ad Asclepio, restituitelo e non dimenticatevene), oggetto di infinite interpretazioni. Elegante, e molto giocata sul cambio delle persone verbali della frase, quella di Dumezil. Una chicca. Che rotolava nella sua mente come il suadente sciabordio della risacca. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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