La “battaglia del grano”: autosufficienza energetica e produzione agricola, la stessa sfida

L’esigenza di incrementare la produzione di frumento duro e tenero e anche di farro è dettata dalla necessità di essere autosufficienti e di poter investire maggiormente nel settore energetico. A cominciare dal fotovoltaico urbano e rurale, per ridurre al minimo le spese di gas e petrolio. Ma anche per diminuire l’inquinamento atmosferico che ha fatto della Valle del Po la zona peggiore d’Europa e delle grandi città, a partire da Roma, autentiche distributrici di aria avvelenata. Soprattutto, per costruirci un futuro meno “nero” come effetto dell’invasione russa in Ucraina. Il conflitto fra due dei più grandi produttori agricoli del mondo mette in crisi l’esportazione di un terzo del grano mondiale. Altri 263 milioni di persone adesso rischiano la fame: il 50% in più dello scorso anno; per Oxfam, il totale sarà di 830 milioni a fine 2022
L’articolo di VITTORIO EMILIANI
NON VORREI RIEVOCARE il tempo nefasto della “Battaglia del grano” mussoliniana. La storia va avanti per fortuna e le sanzioni che riguardano la Russia devono concernere grano (duro soprattutto, ma pure tenero), farro e altri generi alimentari. Anche se non dobbiamo per nulla trascurare le fonti di energia di provenienza russa e che rischiamo di sostituire col ritorno addirittura al carbon fossile (che abbiamo in scarsa quantità e di pessima qualità) e all’importazione del gas americano (estratto attraverso l’invasiva tecnica del fracking) che richiede altre stazioni di degassificazione a bassissima temperatura. Ma lasciamo il settore della decarbonizzazione al momento in grave difficoltà, anche se siamo convinti che un grande piano nazionale per il fotovoltaico da installare nel più alto numero possibile di edifici pubblici e privati, potrebbe essere rapido ed economico con risultati nel breve periodo, sol che non dipendessimo dai mediocri o pessimi pannelli cinesi e si fosse realizzata una filiera nazionale di tutto quanto serve al “Paese del sole” (siamo proprio degli autolesionisti).
Ma veniamo ai cereali, al frumento che per fortuna ha fruito, fin dal ’800, di una ricerca di prim’ordine. Si parla tanto ancor oggi di Nazareno Strampelli, scomparso nel 1942, che con la sua genetica, dicono gli esperti, “ha nutrito il mondo”. Da allora sono passati molti e molti anni e il nostro paese è diventato sempre meno produttore e sempre più importatore di grano tenero e di grano duro. Oltre 4.5 milioni di tonnellate di grano tenero e circa 2 milioni e 200 mila tonnellate di grano duro. È vero che dalla Russia importiamo appena il 4 per cento del grano (soltanto Calenda con uno svarione tragicomico aveva parlato del 30 per cento) e quindi sarebbe una ritorsione da nulla o quasi nel quadro dei rapporti che hanno al centro il gas. Ma non è per questo che dovremmo tornare a incrementare le produzioni di frumento. È per migliorare, nel suo complesso, la nostra bilancia commerciale. Fra l’altro acquistiamo da un paese tutt’altro che amico, l’Ungheria, il 23 per centodel grano tenero e la cosa non ci fa affatto bene.
In Puglia nel 2020 si sono registrati 344.300 ettari seminati a grano duro e in Sicilia, anticamente il granaio di Roma, se ne censivano già nel 2010 circa 302.000 ettari. Aumenta il grano e fortunatamente diminuisce il mais (dico fortunatamente perché è una coltura che specialmente al nord comporta un fortissimo consumo di acqua con irrigazioni a pioggia). Diminuzioni molto forti in Lombardia, da 221.000 a 152.000 ettari nell’ultimo decennio e nel Veneto da 221.000 a 154.000 ettari nello stesso periodo. Con la fine di troppe irrigazioni a pioggia. E, temo, di furti d’acqua quando ce n’era nel Po, nell’Adige e negli affluenti.
Abbiamo ben 3 milioni e mezzo di ettari “inattivi”, cioè abbandonati, dei quali soltanto un modesto 4 per cento ricoperto di alberi spontanei probabilmente fragili e poco utilizzabili come legname. I vari governi hanno fatto decisamente poco per questo problema di fondo. Ma qualcosa si muove a livello di enti o a livello locale, tenendo conto di un fatto enorme e cioè che nella seconda metà del 1900 hanno chiuso ben 245.226 imprese agricole, per lo più piccole rovesciando sulle città e cittadine o paesi di bassa collina e di pianura centinaia e centinaia di migliaia di nuovi abitanti privi di adeguata formazione industriale.
L’Ismea, l’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare, sta mettendo in vendita diecimila ettari da coltivare riservandoli a Cooperative della Banca della Terra, a partire dall’Abruzzo e dall’Emilia-Romagna. Segnali incoraggianti ai quali altri dovrebbero seguire a breve. L’esigenza di incrementare la produzione di frumento duro e tenero e anche di farro è dettata dalla necessità di essere autosufficienti o quanto assai meno dipendenti per poter investire maggiormente nel settore energetico. A cominciare dal fotovoltaico urbano (su tetti e terrazzi di intere città e periferie) e rurale (ben fatto e non schiacciato sui prati-pascoli), per ridurre al minimo le spese per gas e petrolio, purtroppo tornati almeno per un po’necessari, per ridurre l’inquinamento atmosferico che ha fatto della Valle del Po la zona peggiore d’Europa e delle grandi città a partire da Roma autentiche distributrici di aria avvelenata. E, allargando lo sguardo, prepararci ad un futuro meno “nero” come effetto dell’invasione russa in Ucraina. Il conflitto fra due dei più grandi produttori agricoli del mondo oggi mette in crisi l’esportazione di un terzo del grano mondiale, ma anche di mais, orzo e olio di semi di girasole. Altri 263 milioni di persone rischiano adesso la fame: il 50% in più dello scorso anno; secondo le stime di Oxfam, il totale sarà di 830 milioni a fine anno. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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