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Israele a rischio di guerra civile. Il governo mai così a destra, Netanyahu ricattato dagli scandali

di Italia Libera   
Israele a rischio di guerra civile. Il governo mai così a destra, Netanyahu ricattato dagli scandali

Il governo israeliano guidato ancora una volta da “Bibi” Netanyahu, resiste – per ora – alle proteste di piazza che si sono mosse dalla contestata riforma della giustizia, che limiterà l’indipendenza della magistratura. Quest’ultimo esecutivo è il più squilibrato a destra di sempre. La popolazione vede in pericolo il delicatissimo sistema di pesi e contrappesi tra i poteri dello Stato, e la tensione è così alta da far temere perfino una guerra civile. Per quasi tutti gli analisti indipendenti “Bibi” sembra più interessato a difendere il suo destino personale – minacciato dalle inchieste della magistratura – che quello del Paese, disposto a sacrificarne l’assetto democratico. In questo quadro, si riaccendono tensioni e provocazioni tra coloni e palestinesi, è esplosiva la situazione con la Siria, c’è il clamoroso avvicinamento tra Riad e Teheran che accentua la sindrome d’accerchiamento di Israele. E un avvocato romano di 35 anni, Alessandro Parini, è morto alla vigilia di Pasqua in un attentato a Tel Aviv

L’analisi di CARLO GIACOBBE

PROPRIO COME QUANDO in una polveriera si scatena un’esplosione dopo l’altra e si crea il caos, il Medio Oriente è di nuovo in fiamme. La stantìa metafora si conferma purtroppo valida e attuale. Come sempre da qualche millennio accade in quella regione, la chiave di lettura (o meglio, delle letture possibili) è l’entropia, vale a dire il disordine. Ciò fa sì che anche da cambiamenti in atto su alcuni degli scenari interessati, in buona misura determinati da sviluppi apparentemente positivi, le conseguenze risultino in realtà peggiorative. Proverò in seguito a spiegarmi meglio.

Da alcuni mesi a questa parte, dopo la sesta rielezione del premier Benjamin (Bibi) Netanyahu e in coincidenza con la decisione da lui presa di riformare la giustizia in senso favorevole esclusivamente al suo governo, il più di destra mai avutosi nei 75 anni di storia dello Stato ebraico, Israele è spaccato in due e squassato da una serie di manifestazioni senza precedenti contro l’esecutivo. Di esso fanno parte oltre al Likud anche partiti di orientamento supernazionalista e confessionale ebraico, quando non apertamente razzista e antiarabo. Di fronte alla prospettiva di trovarsi a vivere in un Paese dalla democrazia dimidiata, anche molti di quelli che sono ben lontani dal riconoscersi politicamente a sinistra e che avevano dato il loro voto a Bibi, hanno fatto marcia indietro, a meno che il governo non ritiri la proposta di riforma così come è stata presentata alla Knesset. Nel frattempo le manifestazioni contro l’esecutivo continuano, compresa il mese scorso la più corale mai svoltasi, con la partecipazione di oltre 500.000 persone. Fra le misure di protesta minacciate è da registrare (altro fatto inedito in Israele) la minaccia di migliaia di cittadini di non presentarsi al “miluim”, il richiamo militare annuale della durata di circa un mese, obbligatorio per tutti i riservisti (uomini e donne) sotto ai 45 anni, anche se tale età può variare. Il governo, che non si aspettava una opposizione così determinata anche da settori cruciali per il Paese — forze armate, servizi di spionaggio e centri di ricerca compresi —, dopo aver accettato di rimandare l’approvazione definitiva della riforma a dopo le festività pasquali e la fase di recesso del parlamento che si protrarrà ancora per qualche settimana, credeva così di avere un momento di requie. Ciò però non è bastato a fermare le proteste, che sono continuate e continuano a susseguirsi, nella convinzione (condivisa da quasi tutti gli analisti, almeno quelli non di parte) che Bibi sia disposto a sacrificare anche l’assetto democratico nel perseguimento dei propri interessi. Vale a dire per sfuggire a una serie di inchieste a carico suo e della moglie per reati comprendenti corruzione e abuso di potere.

Anche se la prova di ciò ora non può esserci – sarà forse materia di complicate ricostruzioni da parte degli storici negli anni a venire – molti pensano, neanche troppo velatamente, che per far ritrovare un minimo di coesione a uno Stato a rischio addirittura di una guerra civile, come ha ammonito il presidente della Repubblica Isaac Herzog, una delle periodiche situazioni emergenziali in cui si trova coinvolto potrebbe essere l’ideale per il governo. Ecco quindi che con la involontaria complicità di calendari, quello ebraico, quello gregoriano e quello egiriano (musulmano), quest’anno si sono trovate in pratica coincidenza Ramadan, il mese penitenziale dell’Islam, Pesach, la Pasqua degli ebrei e quella dei cristiani. Già all’inizio del digiuno prescritto dal Corano, una decina di giorni fa, a Gerusalemme est si erano registrati disordini alla Spianata delle moschee, quello che per gli ebrei è il Monte del Tempio; rispettivamente il terzo luogo di culto più importante per i musulmani (dopo Medina e La Mecca) e il più sacro per gli ebrei. A qualche centinaio di metri c’è la Gerusalemme cristiana, con la basilica del Santo sepolcro. Questo grumo di fideistiche tradizioni, simbolismi politici, sfide rivendicative, affronti alternativamente arrecati e subiti, rappresenta probabilmente la massima concentrazione di conflittualità del pianeta. Durante le feste tale condizione, se possibile, aumenta ancora. Gli ordini di Netanyahu e di Itamar Ben Gvir, il ministro della Sicurezza considerato il più estremista tra i membri della coalizione di maggioranza, sono perentori e inequivocabili: esercitare il massimo della repressione contro gli arabi e a protezione dei fedeli ebrei presso il Muro del pianto, prospicente la moschea di Al Aqsa. È stato da quei primi giorni del Ramadan che il pugno di ferro di Bibi e dei ministri ancora più falchi di lui si è fatto sentire con forza. Compreso il blocco dell’emittente radio palestinese, con irruzione a Ramallah, capitale dell’Anp, da parte della polizia e di reparti della Guardia di frontiera e temporaneo arresto del direttore e di redattori, con la motivazione che si erano macchiati di apologia di terrorismo.

Dal quel momento sono cominciate le esplosioni di violenza a catena; violenza propagatasi da nord a sud di Israele, nei territori occupati della Cisgiordania (che la destra chiama soltanto con i nomi biblici di Giudea e Samaria), nella Striscia di Gaza. Un crescendo continuo, attizzato ogni giorno, anzi ogni ora, dalle azioni e dalle reazioni condotte alternativamente da Tsahal, le forze armate israeliane, e la guerriglia palestinese. I fatti più gravi, sinora, sono stati la penetrazione dei militari israeliani nella moschea di Al Aqsa, accolti da lancio di fuochi di artificio usati come razzi antiuomo (non letali, forse, ma certo neppure innocui), con arresti e ferimenti di attivisti; poi l’uccisione di due sorelle e il ferimento di una terza donna israeliane, avvenuto in Cisgiordania nella Valle del Giordano. La risposta è stata una serie di violenze da parte dei coloni, cui hanno fatto seguito risposte simili dei palestinesi, a loro volta represse dai militari. Come sempre in questi casi è entrata in gioco anche Gaza e dalla Striscia sono partiti razzi e missili contro le località meridionali. Israele ha risposto e sta rispondendo ancora in queste ore con tiri di artiglieria e bombardamenti aerei contro le località da dove presumibilmente sono partiti i razzi e i missili. Nuovi tunnel, che rendono il sottosuolo della Striscia simile a una immensa groviera e da cui Gaza fa passare armi e altri generi proibiti, sono stati scoperti e fatti saltare dai cacciabombardieri.

Lo scenario sembra al suo parossismo, ma non è così. Con una premessa di ordine tecnico: ogni contendente usa chiamare i nemici come crede. È tipico di Israele, massimamente dell’attuale governo, definire qualsiasi azione ostile da parte della guerriglia palestinese un atto di “terrorismo”, anche quando è diretto contro reparti armati o “miliziani” delle colonie ebraiche, armati quanto lo sono i soldati di Tsahal. Altrettanto tipico è chiamare “forze di occupazione” l’esistenza di comunità israeliane, anche se ci si riferisce a città o centri urbani di Israele, che del resto gli islamici di Hamas, detentori del potere a Gaza, non riconoscono come entità statuale. Ciò detto, sarebbe ben difficile considerare l’opera di un guerrigliero l’uccisione delle due sorelle israeliane inermi, sorprese a passare nella valle del Giordano. Ancora più insensata, e non altrimenti definibile che terroristica, è stata sul lungomare di Tel Aviv, la città più grande, meno politicamente “sensibile” tra quelle israeliane, l’uccisione di un turista italiano appena arrivato per passare la Pasqua nella “metropoli che non dorme mai”, come i dépliant turistici sogliono banalizzarla. Insieme all’avvocato Alessandro Parini, romano di 35 anni, che ha perso la vita, sono rimaste ferite altre cinque persone, due delle quali italiane. L’attentatore, che è stato ucciso da un agente presente alla scena, si è lanciato con l’automobile a tutta velocità contro un gruppo di turisti che si apprestavano ad andare in spiaggia. Un vero atto di terrorismo.

Lo scenario bellico, come ho detto, riguarda anche due confini tra i più nevralgici di Israele, quelli settentrionali con la Siria e con il Libano. Come non succedeva più tanto spesso in coincidenza con le minicrisi ricorrenti tra lo Stato ebraico e i palestinesi, per solidarietà con questi ultimi sono entrati in gioco i siriani, che dalle alture del Golan hanno sparato proiettili di artiglieria a lunga gittata e lanciato missili contro i centri ebraici frontalieri, che però non hanno avuto perdite o danni degni di nota; ciò grazie allo “iron dome” (“cupola di ferro”), un sistema d’arma mobile per la difesa antimissile e antiartiglieria capace di intercettare una percentuale elevata di ogive e testate ostili. Secondo un copione ormai consolidato, la forza aerea israeliana ha risposto con i potenti obici da 155 mm e con  bombardamenti dei suoi caccia, che si sono spinti fin quasi alla periferia di Damasco. Nelle stesse ore, mentre in Israele si svolgeva il tradizionale Seder, la cena cerimoniale che anche nelle famiglie ebraiche meno osservanti apre la settimana pasquale, con una sinergia piuttosto insolita elementi palestinesi (di fede musulmana sunnita) e guerriglieri di Hezbollah (il partito di Dio, di denominazione sciita) hanno compiuto cannoneggiamenti e lanciato razzi e missili verso i centri israeliani in Alta Galilea, anche in questo caso con scarsi effetti grazie alla protezione della “cupola”. La presenza dei palestinesi, con guerriglieri dalla Cisgiordania frammisti ad elementi di Hamas provenienti da Gaza, potrebbe essere motivo di accentuata gravità rispetto a un quadro bellico ricorrente in passato. In Medio Oriente, quando gruppi tradizionalmente ostili o rivali si riavvicinano, non c’è mai motivo di rallegrarsene: anche una semplice tregua spesso non prelude alla pace ma ad alleanze fatalmente in funzione di nuovi piani di ostilità, in questo caso contro il nemico naturale ebraico.

Resta il dubbio sulla congruità delle valutazioni degli analisti e degli strateghi arabi e in particolare palestinesi. Invece di approfittare della gravissima spaccatura in seno alla società israeliana, puntando su una caduta della nuova coalizione, i palestinesi hanno colto come un sol uomo le provocazioni che di certo i coloni non hanno fatto mancare, obbligando però in tal modo gli apparati e i comandi militari (tutt’altro che favorevoli agli ultrà nazionalisti e agli integralisti religiosi) a compiere il loro dovere, come sempre nella storia di Tsahal, anche quando il potere politico sembra essere molto lontano da loro. Del resto anche in tempi che oggi sembrano preistorici, quando Israele era il Paese a maggioranza laica e laburista, intento sì a mantenere e a rafforzare il proprio sistema di difesa, ma soprattutto a edificare le istituzioni scientifiche, economiche e sociali che ne hanno segnato l’incredibile progresso, l’allora ministro degli Esteri Abba Eban, politico e grande intellettuale laburista, pronunciò una battuta rimasta celebre e sempre attuale: «I palestinesi non hanno mai perso l’occasione di perdere un’occasione».

Ma oltre ai dissidi interni e al quadro militare, che per colpa di qualche migliaio di coloni sovranisti riporta di stretta attualità la triste “sindrome da accerchiamento” israeliana, a mio avviso l’avvenimento che potrebbe uscire dalla cronaca per entrare nella storia potrebbe essere un esiziale passo in avanti verso la rappacificazione di due Paesi fortemente antagonisti perché troppo vicini, Arabia Saudita e Iran, massimi centri di potere teocratico, rispettivamente sunnita e sciita. Ma allora perché quell’aggettivo, “esiziale”, che sembra essere usato a sproposito? Dopo sette anni di gelo e di minacce reciproche, grazie alla malleveria cinese le due potenze economiche e militari contrapposte hanno annunciato da qualche giorno che riprenderanno piene relazioni diplomatiche, forse già il mese prossimo, appena saranno approntate le condizioni logistiche. Ancora una volta una notizia che potrebbe suonare positiva ma che invece rischia di far collassare il delicatissimo sistema di pesi e contrappesi che in qualche modo garantisce la tenuta, per quanto precaria, di questo quadrante di mondo.

La ripresa dei rapporti tra i due giganti petroliferi rappresenta una battuta d’arresto rispetto ai “patti di Abramo”, sottoscritti da varie nazioni dell’area durante la presidenza Trump. A Emirati Arabi e Bahrein (oltre a Marocco e Sudan) si puntava a comprendere anche il più rappresentativo di tutti, l’Arabia Saudita, che a suo tempo aveva caldeggiato non poco l’inclusione degli altri firmatari, quasi a far pensare di essere disposta a suggellare con la propria entrata un nuovo corso nelle relazioni con lo Stato ebraico e il mondo circostante. Ma non basta ancora. Il riavvicinamento tra Riad e Teheran potrebbe avere due effetti non certo graditi per l’Occidente. L’aumento sempre maggiore del potere contrattuale della Cina come massima potenza economica dopo gli Stati Uniti e il rischio che i due maggiori produttori di petrolio del Medio Oriente “facciano cartello” a spese soprattutto dell’Europa, Norvegia esclusa. Un motivo in più per cui gli europei farebbero bene a non deflettere dalla ricerca di fonti rinnovabili e alternative ai fossili. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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