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Immunità a vita contro il Covid 19 anche senza anticorpi? Ecco perché

Secondo lo studio dell’Istituto Negri il nostro organismo riconosce l’agente “estraneo” e lo elimina attraverso due compartimenti diversi del sistema immunitario: la risposta "innata" e una "adattativa", più lenta ma in grado di specializzarsi ed attaccare in modo altamente specifico il nuovo patogeno.

di Laura Calosso - Italia Libera   
Immunità a vita contro il Covid 19 anche senza anticorpi? Ecco perché

Chi è guarito (naturalmente) dal Covid 19 e chi è stato vaccinato può avere un’immunità che dura anche tutta la vita senza bisogno di ulteriori vaccinazioni? È una domanda che ci poniamo tutti ascoltando annunci che parlano di terza dose, ma è un interrogativo che si sono posti alcuni scienziati ben prima di noi, giungendo a conclusioni di cui si è forse parlato troppo poco e che vorremmo qui sottoporre alla vostra attenzione.

«Al momento non conosciamo la quantità esatta di anticorpi neutralizzanti e cellule T necessari per stabilire una protezione dall’infezione. Nel complesso però, tutti gli studi riportati rappresentano una prova robusta che l’infezione da Sars-CoV-2 o la vaccinazione provocano l’avvio di una risposta immunitaria che si sviluppa su più fronti. Dunque, se questi dati saranno ulteriormente confermati, i timori di una pandemia destinata a durare anni, con ricadute stagionali, e della necessità di richiami annuali del vaccino, sarebbero cancellati grazie ad un’immunità duratura contro il virus». Così si conclude una relazione dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri, pubblicata sul sito dell’Istituto il 7 luglio 2021 dal titolo “Covid-19 e immunità: quanto a lungo può durare la protezione?”. Il testo recepisce alcuni importanti studi e in particolare una ricerca apparsa su Nature il 24 maggio 2021.

Avete letto bene. Si parla di «immunità duratura contro il virus». Ma come si è arrivati a questa conclusione di cui pare non si stia tenendo conto? Il discorso è ovviamente molto complesso. Proviamo però a sintetizzare, per quanto possibile, il discorso, usando le parole dei ricercatori italiani dell’Istituto. «Quello che sappiamo è che, a seguito dell’infezione primaria, oltre il 90% dei pazienti sviluppa una positività per gli anticorpi contro Sars-CoV-2, anche quelli così detti neutralizzanti che hanno, cioè, la capacità di bloccare il virus ancor prima che questo infetti le nostre cellule. Ciò nonostante, diversi studi hanno rilevato, in modo abbastanza consistente, che gli anticorpi neutralizzanti tendono a diminuire nei primi mesi dopo l’infezione. Il tasso di diminuzione degli anticorpi risulta molto variabile tra i 6 e i 10 mesi e questo sembrerebbe dipendere da due fattori: gravità della malattia (più la malattia è grave e più i livelli di anticorpi sono alti e duraturi e fattori individuali a livello del singolo paziente».

Questo discorso ci è noto, sono le cose che sentiamo di solito in tv, ma procediamo con il resto del ragionamento: «Nonostante la durata dell’immunità rimanga per lo più sconosciuta, sappiamo che le persone che si sono ammalate di Covid-19 presentano un minor rischio di reinfezione rispetto a chi non è mai venuto a contatto con il Sars-CoV-2. Addirittura, diversi studi hanno stimato che le persone precedentemente positive hanno un rischio di poco inferiore all’1% di contrarre nuovamente la malattia».  Ecco un dato interessante che potrebbe anche spiegare perché i contagi stanno diminuendo, al di là della campagna di vaccinazione:  maggiore è il numero delle persone che si sono infettate dal gennaio 2020 a oggi, minore sarà la probabilità che si infettino di nuovo. Ma non è tutto. 

«Durante l’infezione causata da un nuovo virus, il nostro organismo è in grado di riconoscere l’agente “estraneo” ed eliminarlo attraverso due compartimenti diversi del sistema immune: la risposta immunitaria definita ‘innata’ e una definita ‘adattativa’. Il sistema innato rappresenta la prima linea di difesa, quella più antica e primitiva, che permette all’organismo di rispondere in modo generalizzato e aspecifico ad un nuovo patogeno… In seguito alla risposta innata, entra in gioco la risposta adattativa, un sistema relativamente più lento nella risposta, ma in grado di specializzarsi in maggior misura ed attaccare in modo altamente specifico il nuovo patogeno. Questo secondo sistema si basa sull’attivazione dei linfociti B e T, capaci di riconoscere in modo molto mirato alcune parti della struttura del nuovo patogeno».

Nella relazione i ricercatori spiegano come funziona il sistema immunitario e poi affermano: «La particolarità del sistema immunitario adattativo è che presenta una memoria immunologica ovvero esistono particolari tipi di cellule B e T, dette appunto cellule della memoria, che sono in grado di annidarsi all’interno del nostro midollo osseo e restare in una sorta di letargo (definito stato di quiescenza). In realtà queste sono sempre pronte a risvegliarsi e a compiere le loro funzioni qualora lo stesso patogeno, verso cui sono programmate, dovesse reinfettare il nostro organismo».

Ed ecco a questo punto entrare in gioco lo studio del team di Jackson Turner, pubblicato su Nature, che risponde alla domanda fondamentale: il nostro organismo è in grado di rispondere a successivi attacchi da parte del Sars-CoV-2 anche in assenza di misurabili livelli di anticorpi, sviluppati in seguito al Covid-19? Dopo un’articolata analisi sulla durata degli anticorpi nel tempo, ecco un’affermazione su cui varrebbe la pena di riflettere: «Mediante un’analisi più approfondita delle cellule B della memoria, i ricercatori hanno dimostrato che queste erano effettivamente “quiescenti”: non si moltiplicavano più e non producevano molti anticorpi, ma erano pronte a svegliarsi nel momento del bisogno… La speranza è che, come avviene per la memoria immunitaria per questi vaccini, anche la durata delle cellule B contro il Sars-CoV-2 possa essere stabile per decenni o addirittura per tutta la vita». Questa affermazione è davvero confortante, ma se si fossero sbagliati? Pare che il rischio di un errore sia piuttosto improbabile. Lo sviluppo e la persistenza di cellule B della memoria di lunga durata nel midollo osseo è confermata da uno studio australiano apparso su Science Immunology [nota 3].

In sostanza, come sintetizza la relazione sul sito dell’Istituto italiano: «Quello che appare evidente da questi due importanti lavori è che il meccanismo alla base della risposta immunitaria prevede una prima risposta canonica condotta dalle cellule B con produzione transitoria di anticorpi nelle fasi iniziali della malattia, che diminuiscono poi abbastanza rapidamente. A questa fase seguono livelli più stabili di anticorpi, supportati da cellule B della memoria di lunga durata che si rifugiano nel midollo osseo molto tempo dopo l’infezione primaria. Queste ultime offrono una fonte durevole di anticorpi protettivi, necessari per mantenere nel tempo una protezione immunitaria». Citando uno studio svedese della Karolinska University Hospital si aggiunge ancora: «L’aspetto più interessante è che i pazienti con Covid-19 grave sviluppavano sia una forte risposta anticorpale che una risposta orchestrata dai linfociti T; mentre quelli con sintomi più lievi non sempre avevano sviluppato una risposta anticorpale. Nonostante ciò, la maggior parte di queste persone asintomatiche mostrava una marcata risposta dei linfociti T. Inoltre, non erano solo gli individui con Covid-19 confermato a mostrare l’immunità dei linfociti T, ma anche molti dei loro familiari esposti e rimasti sempre asintomatici, suggerendo che la risposta delle cellule T da sola possa conferire protezione anche senza sviluppare anticorpi».

A seguire, ancora un passaggio illuminante: «Queste differenze potrebbero spiegare il motivo per cui alcune persone, pur essendo infettate dal virus, non sviluppano cellule B e quindi anticorpi misurabili nel sangue, ma combattono rapidamente l’infezione mediante una risposta guidata dalle cellule T».

Esistono poi gli studi già fatti anni fa sulla Sars. Alcune persone che avevano contratto la Sars causata dal Sars-CoV nel 2003. A 17 anni di distanza, mostrano una risposta immunitaria al virus basata sulle cellule T, e questo fa ben sperare anche per il Sars-CoV-2. Ma non è ancora tutto. Scrivono i ricercatori italiani: «La scoperta più significativa è però emersa da tre lavori indipendenti che sono giunti alla stessa conclusione. Anche in circa il 30-40% di persone mai entrate in contatto con Sars-CoV-2 erano presenti delle cellule T in grado di riconoscere ed eliminare il virus. Come è possibile che soggetti mai esposti al virus abbiano nel loro corpo cellule T specifiche in grado di rispondergli? Gli studiosi hanno scoperto che esistono delle cellule T che sono in grado di riconoscere diversi virus che presentano delle caratteristiche strutturali comuni (in termine tecnico ‘cross-reattive’) e che sono in grado di reagire a più virus contemporaneamente. Nello specifico, in questi studi hanno dimostrato che i soggetti che avevano incontrato i più comuni coronavirus stagionali del raffreddore avevano delle cellule T in grado di riconoscere ed eliminare anche Sars-CoV-2. Sulla base dei loro risultati, quindi, i ricercatori ipotizzano che un’esposizione preesistente ai virus del raffreddore possa contribuire alle variazioni della gravità della malattia nei pazienti che contraggono Covid-19».

Ottimo. Tutto chiaro e incoraggiante, ma da mesi sentiamo parlare delle pericolose varianti in grado di “bucare” persino il vaccino. Che fare dunque? Procedere con dosi successive di vaccino modulate sulle varianti? La risposta non sta certo a noi, ma al proposito ecco un’altra affermazione presente nella parte conclusiva del testo redatto dall’Istituto italiano: «Con l’obiettivo di identificare la capacità delle cellule T di neutralizzare tutte le varianti del Sars-CoV-2, il gruppo di ricerca guidato da Andrew Redd della Johns Hopkins University School of Medicine ha analizzato il sangue di 30 persone, che avevano contratto Covid-19 ad inizio pandemia, quando ancora nessuna delle varianti si era generata. Con grosso stupore e un pizzico di ottimismo, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che la risposta delle cellule T era rimasta praticamente intatta contro le diverse varianti. Questo ci permetterebbe di mantenere un’efficiente immunità a lungo termine anche nello sfortunato caso in cui alcune varianti, come sembrerebbe essere per le varianti Beta e Gamma, acquisissero una parziale resistenza agli anticorpi generati durante l’infezione con il Sars-CoV-2 originario non mutato».

Chi è giunto al termine di questo mio lungo articolo avrà capito che il tema è molto complesso e sarebbe assai difficile da affrontare in un dibattito televisivo. La speranza è però che gli esperti televisivi leggano gli studi che abbiamo citato e considerino l’impatto catastrofico che eventuali errori di valutazione potrebbero avere sulla salute, presente e futura, di tutti.

di Laura Calosso - Italia Libera   
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