Il serpente del nazionalismo ha schiuso l’uovo nel cuore della nostra casa comune europea

Il serpente del nazionalismo ha schiuso l’uovo nel cuore della nostra casa comune europea

Se nel 2014 l’Europa avesse capito la lezione militare che veniva dalla Crimea e dal Donbass per integrare l’Ucraina nel mercato comune invece che nella Nato, oggi non sarebbe nell’angolo politico. Ed anche nell’angolo economico. Guerra energia e clima, se non l’abbiamo ancora capito, sono un tutt’uno. E la guerra più cattiva — temiamo — è stata appena preannunciata dall’affondamento dell’incrociatore russo Moskva davanti ad Odessa: quattro giorni dopo la passeggiata a Kiev con Zelensky del premier inglese Boris Johnson. Qualcuno sa dirci quanti minuti mancano alla mezzanotte della guerra globale?

Questo editoriale apre il numero 24 del nostro magazine distribuito nelle edicole digitali dal 16 aprile 2022
L’editoriale di IGOR STAGLIANÒ 
L’IDEA STESSA CHE due donne, una ucraina e una russa, portassero la stessa croce di questo Venerdì Santo 2022 ha fatto scandalo, mobilitato diplomazie (per scongiurarlo!), alimentato polemiche. Quasi sotto silenzio è passata la cancellazione, dal cartellone del Teatro Bellini di Napoli per il 25 aprile, del “Lago dei Cigni”. Data oramai per scontata, dopo la messa al bando del capolavoro di Pëtr Ilic Cajkovskij dai teatri comunali di Como, Ferrara e Lonigo, Tuscany Hall di Firenze, Teatro Rossini di Trieste. La ragione? Il capolavoro di danza classica è stato scritto da un russo e alcuni dei ballerini che avrebbero dovuto danzare sulle sue note sono ucraini. Proibito dal governo di Kiev, dopo lo “scandalo” consumato al Teatro San Carlo di Napoli con ucraini e russi che si sono esibiti insieme nel nome della pace.

All’inizio dell’invasione russa in Ucraina era già stato messo al bando all’università Bicocca di Milano un corso su Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Impensabili fino a due mesi fa, le gare di intolleranza verbale e di xenofobia si intensificano e dilagano, preparano e sostengono le violenze fisiche e lo scontro militare. L’uovo del serpente nazionalistico s’è schiuso e ha contaminato, ad ondate successive, l’avvio di questo nostro secolo. Le prove erano state fatte nella ex Jugoslavia sul finire del precedente. Allora su “piccola scala”; piccola per modo di dire: più di centomila morti, indicibili stragi di innocenti, primo genocidio in Europa dalla Seconda guerra mondiale. Odio nazionalistico puro tra gli aggressori serbo-croati (tutti cristiani) e gli aggrediti bosniaci (tutti musulmani). Religioni diverse ne “giustificavano” le distanze politiche: una Bosnia indipendente sarebbe stata «innaturale» (a detta di francesi e britannici nel Consiglio di sicurezza dell’Onu), in quanto «unica nazione musulmana in Europa».

E la nostra memoria è labile. Il «magazzino degli orrori» si colma e si richiude in fretta, le «incrostazioni dell’emotività» si addensano ed evaporano, per citare la scrittrice e giornalista bielorussa Svjatlana Aleksievič. Il Premio Nobel per la letteratura nel 2015 scolpiva queste parole nel suo capolavoro “Preghiera per Chernobyl” mentre si preparavano i bombardamenti Nato su Belgrado. E si consumava la prima grande tragedia europea dopo il crollo del Muro di Berlino e la cosiddetta “fine della storia”. Che era, invece, ripartita da dove aveva fatto un semplice pit stop, denunciata, con la sua gentile e determinata lungimiranza, da quell’uomo di frontiere aperte che fu sempre Alex Langer nella sua militanza politica pacifista. A distanza di vent’anni, eccoci all’upgrade dell’orrore, stavolta all’interno del mondo cristiano e su più ampia scala. Con Papa Bergoglio unico leader mondiale rimasto a chiedere trattative per fermare il bagno di sangue nel cuore del continente. 

Tutti allineati e coperti in un assordante coro bellicista (in tv e sulla stampa, per fortuna non fra i cittadini): “Alleanza della democrazia contro autocrazia”: è l’urlo di guerra del nuovo scontro di civiltà, dall’Atlantico al Pacifico (contro la Cina), con una puntata sul Baltico e l’autocrate turco Recep Tayyip Erdoğan (commerciante in armi con Putin) dalla parte dei buonissimi, col grado di capo negoziatore a Istanbul. Mentre i governanti europei — ognuno per sé, i nostri fra gli altri — vanno a caccia di alternative al gas russo per strangolare il tiranno moscovita. Giusto, giustissimo. Salvo finire fra le braccia di altri autocrati amici del “macellaio Vlad”. Dopo il ministro degli Esteri Di Maio, ora è il premier Draghi a fare il giro delle sette chiese fossili, instradato dal solito capo dell’Eni Claudio Descalzi. E così, via al tour: tra Algeria, Egitto, Azerbaigian, Congo, Angola e Mozambico, più il Qatar. 

A parte quest’ultimo, sono tutti alleati di Mosca, astenuti persino sulle decisioni dell’Onu contro la guerra di Putin. Nel caso dell’autocrate Abdel Fattah Al-Sisi, ad esempio, il giacimento egiziano di Zohr — da cui il Cane a Sei Zampe importerà il gas dal Mediterraneo orientale — per il 30% è di proprietà di Rosneft, compagnia petrolifera russa di stato. Nel caso del presidente algerino Abdelmadjid Tebboune, Putin è suo partner per costruire la prima centrale nucleare nel nord Africa con la russa Rosatom. In Congo l’azienda statale russa Lukoil è impegnata nell’estrazione delle risorse minerarie. Progetti analoghi in Mozambico e in Angola.

Soldi che girano e tornano per altre vie nelle casse di Mosca e delle industrie globali degli armamenti (italiane incluse). Se il ministro della Transizione ecologica Cingolani (che da quell’industria è stato prelevato e messo al governo) non avesse menato il can per l’aia un anno intero, i 9 miliardi di metri cubi di gas algerino — poco più del 10% del nostro fabbisogno annuale, a partire dal 2023-2024 —, li avremmo potuti già sostituire quest’anno con la produzione elettrica rinnovabile. Se nel 2014 l’Europa avesse capito la lezione politica e militare che veniva dalla Crimea e dal Donbass avrebbe integrato l’Ucraina nel mercato comune non nella Nato, e oggi non sarebbe nell’angolo politico. Ed anche nell’angolo economico: i prodotti europei costeranno di più per il caro energia; compreremo gas più esoso dagli americani e prodotti più concorrenziali dai cinesi, con i rifornimenti russi per loro più a buon mercato. Un capolavoro. Economico, politico e militare.

Per responsabilità primaria della cleptocrazia securitaria moscovita, guerra energia e clima sono oggi un tutt’uno, se non l’abbiamo ancora capito. E la guerra più cattiva — temiamo — è stata appena preannunciata dall’affondamento dell’incrociatore russo Moskva davanti ad Odessa: quattro giorni dopo la passeggiata a Kiev con Zelensky del premier inglese Boris Johnson. Qualcuno sa dirci quanti minuti mancano alla mezzanotte della guerra globale? © RIPRODUZIONE RISERVATA
Leggi qui il sommario del quindicinale n. 24 (16-30 aprile 2022)