Il prezzo della vita: 30 lire in più all’ora. La storia di Alba, lavoratrice dell’amianto

Ogni tragedia ha bisogno dei suoi testimoni, di chi “ricorda”, di chi condivide con gli altri quello che si vorrebbe non succedesse mai più. La storia di Alba, 86 anni, sopravvissuta alla lavorazione dell’amianto (lavorava alla fabbrica Sia di Grugliasco, nell’hinterland torinese), è la storia di un’umanità costretta a lavori molto pericolosi per poter vivere, senza essere informata dell’inferno (e dei rischi) che deve affrontare. La Sia era una fabbrica che produceva tessuti d’amianto; della vicenda l’autore ne ha già scritto su Italia Libera. Qui Alba si racconta: le pressioni, i silenzi, i rifiuti delle aziende che non assumevano chi aveva lavorato alla Sia e aveva quasi certamente la salute compromessa. «Eravamo ignoranti, e ci rassicuravano». L’amianto ne ha uccisi 120 mila in Italia, ma tanti altri operai hanno avuto la vita pregiudicata con i polmoni intasati da questo cancerogeno
L’intervista di ALBERTO GAINO
ALBA TACCHINO È una signora di 86 anni e per 27 ha lavorato alla Società Italiana Amianto (Sia) di Grugliasco, hinterland torinese, azienda leader nel corso del Novecento della produzione di tessuti di amianto. Alba è diventata testimone della strage di lavoratrici in quella fabbrica: centinaia di donne «andatesene silenziosamente al creatore» a causa di tumori provocati dall’esposizione all’amianto che alla Sia era intensa, in particolare nei reparti di carderia e filatura. Alba ne parla in convegni, incontri pubblici, scuole: «Le mie compagne che volevano mettersi in malattia venivano minacciate di essere trasferite nei reparti dove si lavorava l’amianto blu, il più pericoloso. Nessuna si metteva in malattia».
Gli ultimi incontri di Alba sono stati con due classi di diciassettenni (prevalentemente femminili) del liceo scientifico Marie Curie di Collegno, città di cinquantamila abitanti confinante con Grugliasco e dove Alba vive da oltre mezzo secolo. Ragazze e ragazzi avevano preparato la loro intervista collettiva alla “testimone” leggendo Digerire l’amianto, storia collettiva delle lavoratrici Sia scritta da Chiara Sasso con le preziose introduzione e prefazione rispettivamente di Bianca Guidetti Serra (prima firmataria della legge che bandì l’amianto in Italia nel 1992) e Franca Rame.
Alba non nasconde la sua asbestosi (la prima malattia professionale dovuta all’amianto che sia stata certificata) e racconta serenamente di esserle «andata bene rispetto a tante mie compagne». E aggiunge: «Ho una percentuale di invalidità del 46 per cento, che andrà peggiorando. Rispetto a chi faticava a respirare e, andando in pensione, ripeteva “Adesso finalmente potrò restare sdraiato per ore e ore e farò meno fatica a respirare”, mi sono sempre regolata diversamente: capivo che i polmoni, invasi nei loro alveoli dalle fibre di amianto, dovevano invece essere sollecitati e ho sempre fatto sport nella mia vita, anche da pensionata. Non so se proprio per questo o per il mio fisico robusto, alla mia età me la cavo. Ogni tanto vado a fare le lastre all’ospedale di Rivoli. Dove mi è accaduta qualche tempo fa una cosa curiosa: sulla lastra si vedeva bene la mia asbestosi, ce l’ho da tanti anni e la riconosco. Ma il giovane medico che la stava osservando non capiva. Non aveva mai visto un caso di asbestosi e gli ho dovuto spiegare io che nella lastra si riconosceva l’asbestosi. Allora, il giovane medico ha chiamato alcuni suoi colleghi e tutti insieme hanno guardato per benino la lastra con la mia asbestosi».
Alba è una sopravvissuta di un tempo industriale che ha provocato 120 mila morti di amianto negli ultimi trent’anni fra i lavoratori italiani: l’onda lunga della latenza delle malattie più gravi. Poter contare su di lei e altri vecchi operai come testimoni del lavoro che uccide è importante per il futuro. Nel quale si profilano i danni del presente: la mancata sorveglianza sanitaria degli ex esposti e, purtroppo, di quanti sono tuttora esposti fra i manutentori di impianti industriali e civili coibentati con amianto e operai edili, elettrici, idraulici, imbianchini che ristrutturano i palazzi del Novecento imbottiti di amianto. Una questione aperta e grave: non sono previste agevolazioni fiscali per uno smaltimento in sicurezza per la salute; e gli alti costi inducono troppi imprenditori e proprietari di immobili a imboccare scorciatoie pericolose.
Con Alba domande e risposte volgono i pensieri al passato e conoscere come era la realtà del lavoro è importante per ragazzi attesi da una forte precarietà. Il confronto con il tempo di Alba fa subito pensare che le dinamiche salariali, per cominciare, non siano cambiate: è ricorrente ancora oggi ritenere che il conflitto fra lavoro e salute (si veda Taranto e non solo) dipenda dalla monetizzazione, lo si sosteneva anche per le fabbriche di lavorazione dell’amianto. Ebbene sulla busta paga del novembre 1968 della signora Alba sta scritto che la sua maggiorazione per la “polverosità” era di 30 lire orarie, mentre la paga base oraria di 266 lire, il cottimo di 800 mensili.
Senza straordinario, quel mese, Alba ebbe una busta paga di 57 mila lire, dedotte le imposte. In altre aziende tessili le operaie prendevano ancora meno. È vero che c’era la garanzia del posto di lavoro fisso. Ma pensate che cosa accadde ad Alba:
«Avevo avuto i miei due figli e, purtroppo, non c’erano asili nido allora. Io venivo dalla provincia di Alessandria, da un posto di contadini, Castelletto d’Orba, dove lavorare la terra era dura. E ancora adesso è dura su quei pendii ripidi e non regolari. Non si viveva e, grazie ad una parente, venni assunta alla Sia, venni su a Torino e dopo qualche tempo riuscii ad affittare una stanza senza servizi igienici dalle parti della fabbrica. Le cose migliorarono con il matrimonio, ma non c’erano servizi che sostenessero noi lavoratrici madri. Dovetti licenziarmi per accudire i miei bambini. Appena crebbero un po’ ripresi a cercare lavoro in zona. Ma come mi presentavo e le aziende sapevano che avevo lavorato l’amianto non volevano assumermi. Persino nel settore pubblico andò così: superai il concorso per infermiera nell’ospedale psichiatrico di Collegno ma non mi presero nemmeno quella volta dicendomi che, essendo stata alle dipendenze della Sia, potevo ammalarmi e sarei diventata un peso per la gestione dell’ospedale. Per lavorare, dovetti tornare alla Sia».
Si era all’inizio degli anni Settanta: del 1972 è il primo rapporto Iarc (International Agency for Research on Cancer) sulla sicura cancerogenicità dell’amianto, del 1976 è la conferenza ai suoi manager di Stephan Schmidheiny, in cui l’ultimo magnate dell’amianto conviene con lo Iarc ma ordina di continuare la produzione di amianto raccomandando di diffondere l’informazione che a causare serie malattie era semmai il fumo di sigaretta. Infine, lo Stato italiano bandisce l’amianto nel 1992 consentendo però alle industrie di continuare a utilizzare impianti coibentati con amianto.
Dunque, agli inizi degli anni Settanta, la pericolosità dell’amianto era nota negli ambienti industriali, anche grazie alla testimonianza personale di Alba Tacchino. «Come mai voi operai non ne eravate a conoscenza?» chiedono gli studenti come reazione alla testimonianza di Alba. Che, puntualmente, risponde:
«Eravamo ignoranti e ci rassicuravano quando ci facevano le lastre ai polmoni. L’azienda ci passava il latte ogni giorno e dovevamo berlo sul posto di lavoro. Sostiene la salute, ci dicevano. Noi donne andavamo a lavorare in bici, così, prima, potevamo lavorare in casa. L’orario era buono (dalle 8 alle cinque del pomeriggio) e dopo la fabbrica si poteva fare compere e preparare cena. Purtroppo, di sabato, si doveva tornare in fabbrica a pulire i macchinari pieni di polvere di amianto con stracci che, dopo, dovevamo sbattere sotto i nostri nasi. Facevo anche nove ore di sabato alla Sia e non mi ricordo più se ci venivano pagate. Sbattere quegli stracci era molto pericoloso ma lo abbiamo saputo solo quando sono entrati in fabbrica i sindacati. E ci hanno fatto ottenere mascherine e aspiratori. È stato dopo il 1976».
Del conflitto fra lavoro e salute ho scritto persino io in un mio libro (“Il silenzio dell’amianto”, Rosenberg & Sellier editore) in cui riporto, fra altre, la testimonianza di un giovanissimo pretore torinese, Raffaele Guariniello, che nel 1967 ispeziona la Sia, rimane colpito dalla polverosità degli ambienti di lavoro («Sembrava che nevicasse là dentro») e alcuni giorni dopo si ritrova davanti nel suo ufficio una delegazione di operai della azienda, composta da soli uomini nonostante la grande maggioranza di lavoratrici, che lo pregarono di mettersi una mano sul cuore: «L’azienda minaccia di lasciarci tutti a casa».
L’azienda, di proprietà negli ultimi decenni di un gruppo americano, aveva conservato il paternalismo delle imprese dalla produzione pericolosa: aveva persino aperto, negli anni Settanta, un asilo in fabbrica per i figli delle lavoratrici. Alla sua chiusura gli ultimi clienti – in Europa l’amianto era ormai rifiutato dal mercato dei consumi – furono aziende cinesi.
Allora cominciò un altro tempo per le lavoratrici Sia: il tempo della paura di ammalarsi. Vedevano le loro compagne di lavoro morire. Di questo ne sono testimone pure io quando ne intervistai alcune riunitesi nell’appartamento di Alba che oggi non ha più paura: «Ho 86 anni. Le altre sono morte quasi tutte, di vecchiaia e di malattie dovute all’amianto. Una mia collega, colpita anch’essa dall’asbestosi ma con una percentuale del 100 per cento di invalidità, vive attaccata giorno e notte al respiratore. Il mio guaio maggiore, invece, è un disturbo al cervelletto che mi provoca ogni tanto amnesie temporanee, magari non mi ricordo dove ho posato una cosa, faccio un giro della casa e me ne ricordo. Lavoravamo anche con la colla alla Sia e, contenendo sostanze chimiche, mi ha lasciato quel disturbo, da poco rispetto alla fine delle mie compagne. Sono stata fortunata e almeno posso testimoniare cos’è stato il lavoro nelle fabbriche dell’amianto». © RIPRODUZIONE RISERVATA