Il “nuovo modo di piovere” e il disastro prossimo venturo: il caso Limone Piemonte nel 2020

«Da oltre cinquant’anni i geologi italiani ripetono il mantra: abbiamo costruito troppo e male, senza preoccuparci né dell’ambiente, né delle conseguenze che si sarebbero pagate nel tempo», ci ricorda in questa intervista il geomorfologo del Cnr Fabio Luino. «Gli spazi che fino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso erano rimasti saggiamente liberi da edifici, sono stati via via occupati senza dar peso né ai consigli dei vecchi del paese, né ai suggerimenti dei più accorti e onesti professionisti del settore». L’occasione è offerta dalla presentazione il 25 maggio a Torino del numero speciale di “Geologia dell’Ambiente”, un volume rievocativo dell’evento catastrofico nella località turistica Limone Piemonte il 2 e 3 ottobre del 2020
L’intervista di MAURIZIO MENICUCCI con FABIO LUINO, geomorfologo Cnr
DICIASSETTE ORE CONTINUE di pioggia scrosciante, così intense da scaricare sul Piemonte meridionale al confine con la Francia e sul nord della regione una massa d’acqua pari a un terzo della normale precipitazione annua: lo stesso volume che nelle precedenti alluvioni, nel novembre del 1994, la più grave, nell’ottobre del 2000 e nel novembre del 2016, si era distribuita in periodi dai tre ai cinque giorni. Proprio per questa improvvisa violenza, più ancora che per i danni, ingenti ma per fortuna senza vittime, l’alluvione dell’ottobre del 2020 viene considerata dagli esperti un avvertimento epocale. È la prova generale, altro avviso, di quello che, oltretutto con un prevedibile aumento dei caratteri distruttivi, il clima sempre più alterato e tropicalizzato della Penisola ci riserva, da oggi in poi.
È un evento-spartiacque raccolto ora in un volume di 174 pagine e 250 foto con cui si racconta il disastro di diciotto mesi fa, e si propone, insieme, la necessità di alzare il livello di complessità e la qualità degli strumenti tecnici per l’analisi di questi fenomeni. Fabio Luino, geomorfologo e ricercatore senior del Cnr Irpi di Torino, invita a rilevare un’altra particolarità di questo ‘nuovo modo di piovere’. La tendenza, cioè, delle stesse quantità di precipitazioni in zone sempre più ristrette, moltiplicandone gli effetti distruttivi. In questo caso, la bomba d’acqua infierì sulla cittadina turistica di Limone Piemonte. «Vederla totalmente devastata è stata una pugnalata al cuore. Quella casetta basculata nel torrente ha fatto il giro del mondo! In secondo luogo, ha fatto notizia che l’alta Valle del Tanaro fosse stata colpita di nuovo gravemente a distanza di soli 4 anni: la popolazione credeva erroneamente che i lavori eseguiti li avessero messi al sicuro, nessuno, però, aveva fatto i conti con un secolo di urbanizzazione turistica selvaggia. Ecco perché non bisogna mai utilizzare il termine “mettere in sicurezza”: è un luogo comune falso e fuorviante».
— Nella debolezza idrogeologica del Bel Paese, che parte ha avuto l’uomo?
«La geologia recita che l’Italia è una penisola “giovane” e quindi instabile. Questo si insegna sui testi delle scuole medie e del liceo. Così come si sottolinea sempre che in Italia è avvenuto un profondo abbandono della montagna, una diminuzione delle superfici boscate (falso), una vasta cementificazione delle aree urbane (vero). Certo, queste sono le condizioni naturali favorevoli al dissesto, ma non c’è dubbio che il colpo definitivo l’ha inflitto l’homo italicus. Non solamente pochi grandi capitalisti, ma anche migliaia di bravi cittadini, gli stessi che oggi lamentano le rasoiate loro inflitte da Madre Natura con metodica regolarità, ma che ieri l’hanno colpita con sistematica e meschina speculazione. Stiamo pagando il conto salatissimo di una diffusa “non cultura”, presente purtroppo in tutti i settori (inquinamento industriale, in primis), convinta che il patrimonio comune, in quanto tale, sia proprietà di nessuno, e quindi se ne possa approfittare senza pena e difficoltà».
— Il filosofo francese Jan-Luc Nancy aveva formulato il principio di “non Equivalenza delle Catastrofi”, per dire che un sisma, un’eruzione o uno tsunami sono disastrosi non per la loro forza fisica, ma per la misura in cui non ci danneggiano. È evidente, ad esempio, che lo tsunami di Fukushima non sarebbe stato così disastroso, se non si fossero costruite delle centrali nucleari sulla costa per raffreddare a buon mercato gli impianti con l’acqua del mare. Mobilitare la filosofia per un’osservazione così banale può far sorridere, tuttavia è vero che non meno banalmente ce ne dimentichiamo e regolarmente preferiamo chiudere gli occhi sui rischi che le nostre scelte urbanistiche e produttive si ritorcano contro di noi.
«Da oltre cinquant’anni i geologi italiani ripetono il mantra: abbiamo costruito troppo e male, senza preoccuparci né dell’ambiente, né delle conseguenze che si sarebbero pagate nel tempo. Gli spazi che fino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso erano rimasti saggiamente liberi da edifici, sono stati via via occupati senza dar peso né ai consigli dei vecchi del paese, né ai suggerimenti dei più accorti e onesti professionisti del settore. Proprio a Limone Piemonte, un censimento condotto dall’Amministrazione Provinciale di Cuneo nei primi anni 2000 aveva messo in evidenza che circa il 75% degli edifici erano stati realizzati dopo il 1962: quando, dagli anni ’80, si è tentato di correre ai ripari, la situazione era ormai compromessa. Ecco perché trovo inammissibile che sui giornali si possa ancora leggere il termine “calamità naturale”. Cosa vuol dire? Nulla. La calamità non è mai naturale: è il processo che è naturale e diventa calamità nel momento in cui intacca i nostri interessi. La verità è che questo termine permette di creare un alibi alle responsabilità oggettive».
— Si può mitigare in qualche modo questo rischio geo-idrologico in costante aumento e il continuo sperpero di denaro pubblico?
«Sarebbe già un successo se oggi non aggiungessimo errori agli errori del passato. Certo, rimarrebbero da sanare tutte quelle situazioni ingarbugliate che si sono create negli scorsi decenni di incuria e malaffare La strada da imboccare, tralasciando i doverosi piani di protezione civile, deve osservare due punti fondamentali, da considerarsi come interventi di difesa “attiva” e non passiva: lasciare i siti a rischio e stipulare assicurazioni. Ritengo che questo sia il più grande errore commesso dallo Stato, in particolar modo dopo gli ultimi eventi alluvionali. Sono mancate del tutto quella lungimiranza e quel minimo senso di responsabilità che avrebbero dovuto generare — e imporre — una legge in materia. La tanto agognata “ricostruzione”, in almeno il 70% dei casi, è da considerarsi come un palliativo, un vero sperpero di denaro pubblico: milioni e milioni di euro sprecati per creare barriere e muri. Sarebbe economicamente più vantaggioso costruire ex novo villette a schiera, capannoni industriali, scuole e altro, in zone a basso rischio, trasferendovi gli abitanti e le infrastrutture, piuttosto che pagare il 70-80% dei danni subiti, lasciando tutto dov’è ora, ben sapendo che fra 5, o 10 o anche 20 anni queste zone saranno nuovamente colpite. L’altra soluzione è una forma assicurativa, che esiste già da decenni negli Usa, in Francia, Svizzera, Norvegia e Giappone, ed estende la polizza contro il rischio di incendio dei fabbricati alla copertura per le catastrofi naturali: i danni, cioè, che possono derivare da frana, alluvione, terremoto, maremoto ed eruzione vulcanica, purché venga dichiarato lo stato di emergenza».
— Il problema acqua incombe come una duplice, paradossale emergenza: in alcune aree e in alcuni periodi è rovinosamente troppa, in altre manca. È possibile una soluzione unica per due questioni così antitetiche?
«Negli ultimi mesi, in Italia, abbiamo subìto un periodo di siccità impressionante. Nel Nord Ovest, in dicembre, sono caduti meno di 30 mm di acqua. E poi nei mesi successivi il periodo secco è continuato. Temo che ne pagheremo le conseguenze quest’estate anche se la speranza è l’ultima a morire: ci vorrebbe un bel giugno piovoso, con precipitazioni magari giornaliere, anche solo di qualche ora, e poco intense, per sanare una situazione tanto critica. Purtroppo, non puoi portare l’acqua da zone ricche ad altre siccitose, ad esempio dal Friuli alla Sicilia, perché i costi sarebbero proibitivi, anche se, negli anni ’60, Fanfani propose di realizzare proprio un acquedotto del genere. Per affrontare i periodi di scarsità idrica, l’unica è realizzare grandi invasi come abbiamo fatto al Sud negli ultimi 50-60 anni. Il problema sta nel costo per realizzarli e poi gestirli, e nel loro impatto ambientale. In realtà, però, al Nord le dighe le abbiamo, ma le usiamo per l’idroelettrico e pochissimo per alimentare le reti di distribuzione potabili e irrigue. In altre parole, quest’anno, con il Po in secca e molte falde “basse”, non riusciremo ad approvvigionarci. Il problema è sicuramente molto complesso e non è stato mai affrontato con una programmazione adeguata». © RIPRODUZIONE RISERVATA
Aiutaci a restare liberi