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Il fiore che si mangia: occhi nuovi su un vecchio amico dell’orto, il cavolfiore

di Italia Libera   
Il fiore che si mangia: occhi nuovi su un vecchio amico dell’orto, il cavolfiore

Il cavolfiore è uno di quegli ortaggi che hanno fatto la storia della tavola mediterranea: umile e versatile, talvolta discusso per il suo odore pungente in cottura, ma sempre presente sulle mense durante le stagioni fredde. Non a caso gli agricoltori lo chiamavano “fiore d’inverno”: bianco e compatto, ricorda un bouquet vegetale che sboccia proprio quando il resto dell’orto riposa. Originario forse del Mediterraneo orientale, forse dall’isola di Cipro o dall’Asia Minore, il cavolfiore giunse in Italia nella seconda metà del Quattrocento, come attestano le prime fonti documentarie. Da Napoli e dalla Toscana,  si diffuse nel resto d’Europa tra il XVI e il XVII secolo, grazie anche ai commerci liguri e toscani. Ricco d’acqua, povero di calorie, con una discreta quantità di proteine vegetali e vitamine, è un ortaggio alleato delle diete sane. Contiene sostanze bioattive studiate per i loro potenziali effetti protettivi contro alcuni tumori. Un tempo considerato un cibo povero, adatto alle mense contadine, il cavolfiore è oggi protagonista anche nelle cucine più raffinate: corimbi serviti al vapore come caviale vegetale, purè cremosi accostati al pesce o “steak” alla griglia

◆ Il racconto di STEFANIA DE PASCALE

Il cavolfiore appartiene alla grande famiglia delle Brassicaceae (o Cruciferae) e alla specie Brassica oleracea L. Questa specie è straordinaria per la sua ricchezza di biodiversità e per la capacità, grazie alla selezione e alla domesticazione, di aver dato origine a un’ampia gamma di varietà botaniche tra loro molto diverse, pur appartenendo alla stessa specie. Secondo la classificazione tradizionale, le forme coltivate si distinguono in diversi gruppi orticoli: il cavolo da foglia (var. acephala), che comprende cavolo nero toscano, cavoli ricci e cavolo portoghese, privo di testa compatta e caratterizzato da grandi foglie basali; il cavolo cappuccio (var. capitata), selezionato per formare una testa serrata di foglie, presente in tipi bianchi, rossi e verdi; il cavolfiore (var. botrytis), riconoscibile per l’infiorescenza ipertrofica e compatta, con numerosi ecotipi locali e varietà commerciali (“cultivar”); il broccolo (var. italica), con infiorescenze raccolte in corimbi più sciolti, tipico nelle forme verdi e nel romanesco; il cavolo di Bruxelles (var. gemmifera), che sviluppa piccoli cavolini ascellari lungo il fusto; il cavolo rapa (var. gongylodes), caratterizzato dall’ingrossamento commestibile del fusto; e infine la verza (var. sabauda), che forma teste più lasse, con foglie bollose e croccanti.

Il cavolfiore è uno di quegli ortaggi che hanno fatto la storia della tavola mediterranea: umile e versatile, talvolta discusso per il suo odore pungente in cottura, ma sempre presente sulle mense durante le stagioni fredde. Non a caso gli agricoltori lo chiamavano “fiore d’inverno”: bianco e compatto, ricorda un bouquet vegetale che sboccia proprio quando il resto dell’orto riposa. Probabilmente originario del Mediterraneo orientale, forse dall’isola di Cipro o dall’Asia Minore, il cavolfiore giunse in Italia nella seconda metà del Quattrocento, come attestano le prime fonti documentarie che lo citano a Napoli e in Toscana. Da lì si diffuse nel resto d’Europa tra il XVI e il XVII secolo, grazie anche ai commerci liguri e toscani. In breve tempo conquistò i campi della Campania, delle Marche e della Toscana, diventando uno degli ortaggi simbolo delle cucine regionali. Alcune varietà storiche portano ancora il nome del territorio: il Gigante di Napoli, il Precoce di Jesi, il Primaticcio di Toscana.

La parte edule, il corimbo, è in realtà un insieme di gemme fiorali mai sbocciate: una sorta di fiore bloccato nel tempo, reso tenero e commestibile da secoli di selezione agricola che ha indirizzato l’energia della pianta verso quella palla bianca compatta, invece che verso lo stelo fiorale e i semi. Non è sempre bianco, però: esistono anche cavolfiori verdi, arancioni e persino viola, apprezzati nei mercati locali ma meno diffusi per l’esportazione. Alcuni di essi devono la loro colorazione alla presenza di pigmenti antiossidanti naturali, come i carotenoidi e le antocianine. Col tempo, il cavolfiore si è trasformato anche in un prodotto da esportazione e oggetto di miglioramento genetico: dagli antichi corimbi enormi e irregolari, che potevano superare i 3–4 kg, si è passati a cultivar più uniformi e compatte, adatte alla raccolta scalare o meccanizzata, fino agli ibridi moderni, resistenti alle malattie e capaci di produrre anche in climi più caldi.

Il cavolfiore non ama gli estremi: preferisce i climi temperati, freschi e umidi, teme le gelate tardive e soffre le estati torride. In Italia viene coltivato soprattutto in cicli autunno-invernali, con semine che vanno da maggio a luglio e raccolte che si protraggono fino a primavera. Il suo ciclo colturale è relativamente lungo: dalla semina al trapianto passano circa 30–40 giorni, poi la pianta richiede da 2 a 6 mesi per giungere a raccolta, a seconda della cultivar (precoci o tardive) e della stagione. Richiede abbondante acqua soprattutto nelle prime fasi, un terreno fertile e ben drenato, teme i ristagni come le siccità. Gli agricoltori conoscono bene i suoi punti deboli: un eccesso di azoto rende il corimbo meno compatto, una carenza di boro provoca spaccature e imbrunimenti, mentre un freddo improvviso porta alla bottonatura, cioè la formazione di piccole teste non commerciabili. La raccolta è manuale e scalare, condotta in più passaggi: si taglia la pianta quando la testa ha raggiunto la giusta pezzatura, in genere almeno 11–12 centimetri di diametro. Per conservarne il caratteristico colore candido, talvolta le infiorescenze vengono protette dal sole con le stesse foglie della pianta, piegate e legate sopra la “palla”, oppure grazie a cultivar “autocoprenti”, le cui foglie si chiudono naturalmente attorno alla testa come una corona. Ancora oggi, nei campi italiani, lo spettacolo è suggestivo: lunghe file di foglie verdi da cui affiorano le teste bianche e compatte del cavolfiore.

Con il cavolfiore si può fare davvero di tutto: a Napoli diventa il protagonista della pasta e cavolfiore, cotto lentamente con aglio, olio e acciughe fino a creare un condimento cremoso; lessato e condito con un filo d’olio e qualche goccia di limone resta un contorno semplice e leggero; al forno si veste da gratin, dorato e croccante, spesso arricchito da besciamella e formaggio, come nella tradizione emiliana e piemontese. In Campania è immancabile a Natale nella tradizionale “insalata di rinforzo”, mentre in Toscana si trasforma in una vellutata morbida e cremosa, perfetta da accompagnare con l’olio nuovo; in Sicilia diventa “vastedda fritta”, cioè frittelle di cavolfiore in pastella, servite calde e dorate; altrove viene servito sgranato in piccoli fioretti crudi, usato nelle insalate o marinato all’agro come conserva. Il suo profumo in cottura, dovuto ai composti solforati, può risultare intenso, ma basta non esagerare con i tempi di bollitura, o aggiungere poche gocce di limone nell’acqua, per mantenerlo gradevole.

Ricco d’acqua, povero di calorie, con una discreta quantità di proteine vegetali e vitamine, è un ortaggio alleato delle diete sane. Inoltre, contiene sostanze bioattive – come indoli e isotiocianati – studiate per i loro potenziali effetti protettivi contro alcuni tumori. Un tempo considerato un cibo povero, adatto alle mense contadine, il cavolfiore è oggi protagonista anche nelle cucine più raffinate: corimbi serviti al vapore come caviale vegetale, purè cremosi accostati al pesce o persino “steak” alla griglia, simbolo della cucina vegetale contemporanea. È la dimostrazione che non serve un’esotica rarità per sorprendere: basta guardare con occhi nuovi un vecchio amico dell’orto. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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