Il diritto (non il dovere) di avere figli. Maternità o carriera? Il calo delle nascite e il ruolo conteso delle donne
Il tema della crisi demografica, con le sempre meno nascite in Italia, è tornato in cima al dibattito, dopo che l’Istat ha fornito il dato delle nascite nel 2022 in Italia (sotto le 400mila) e in occasione degli “Stati generali della natalità” a Roma, dove sono intervenuti di presenza Papa Francesco e Giorgia Meloni. La Presidente del Consiglio ha rivendicato i sostegni alle famiglie che vogliono avere dei figli come una priorità del governo, e il diritto delle donne ad essere madri non tanto come “pari opportunità” ma come “pari libertà”. Ma qual è la fotogrfia delle condizioni nella società di oggi di una donna che lavora e vuole diventare madre? Ecco perché sono diversi e complessi i problemi che deve affrontare
L’analisi di STEFANELLA CAMPANA
DA ANNI IN ITALIA la curva delle nascite è in discesa. Dal 2007 il tasso di mortalità supera quello della natalità, un divario che nemmeno l’immigrazione riesce a colmare. Nel 2022 si è toccato il minimo storico, solo 393 mila nascite, conquistando la maglia nera per natalità. E per il terzo anno di fila è la Sardegna con meno nati, con un valore inferiore a un figlio per donna. «Come Paese abbiamo toccato un punto di non ritorno. La popolazione italiana continuerà a diminuire», sottolineano i demografi. Una tendenza anche nell’Unione Europea, come rivela l’analisi di Eurostat. Nel 2021 la media europea si è attestata a 1,53% di nascite per donna per un totale di 4,09 milioni di nascite (4,68 milioni nel 2008) da cui si discosta quello italiano a 1,25% per donna, un dato superiore solo alla Spagna 1,19% e Malta 1,13%. In testa alla graduatoria della natalità la Francia 1,84% per donna, Repubblica Ceca 1,83%, Romania 1,81%, Irlanda 1,78%. Freddi numeri da capire perché la maternità ha non solo implicazioni affettive, intime, ne ha altre di natura economica, sociale, culturale, sanitaria, politica. Se coinvolge uomini e donne, sono soprattutto queste ultime a essere chiamate in causa come responsabili dell’estinzione demografica del Paese. Ma la maternità è una libera scelta? Parafrasando Simone de Beauvoir madri non si nasce, si diventa. Di certo le ultime generazioni di donne hanno messo in discussione la maternità come destino naturale, affermando la libertà di potersi autodeterminare, di liberarsi dai ruoli imposti dall’appartenere a un genere, dagli schemi patriarcali.
Maternità o carriera? Conciliazione difficile, un dilemma non sempre risolvibile visto che la quasi totalità di cura domestica grava sulle donne (5 ore, contro un’ora e 48 minuti degli uomini). Come essere una buona madre senza annullarsi e sentirsi contro natura se dai priorità al lavoro. Essere madre non è un dovere ma un diritto tra i tanti, da difendere come tutti i diritti, sottolinea chi coscientemente sceglie di non essere madre. Sono tante, e spesso si sentono marginalizzate e colpevolizzate come ha raccontato con ironia l’attrice Chiara Francini al festival di Sanremo, nel suo monologo sulla non maternità. Ma c’è anche chi confessa di “Pentirsi di essere madri”, come racconta il libro della sociologa israeliana Orna Donath, un’analisi sulle madri pentite di avere fatto figli per i condizionamenti culturali, un ideale positivo che non sempre corrisponde all’esigenza reale di essere madre in una società dove il compito più importante per la donna sembra essere quello di avere figli.
Di diverso avviso Eugenia Roccella, ministra per la famiglia e la natalità, convinta che sia urgente un “cambiamento culturale” per fermare l’inverno demografico: «Un figlio non è un fatto privato, ha riflessi sulla vita della comunità», e definisce la maternità «un lavoro socialmente utile». Un dovere sociale? Ma qual è il confine tra la libertà di decidere di sé e del proprio corpo e le pretese di un bene comune “superiore”? In modo inquietante ci ricorda “Il racconto dell’ancella” di Margaret Atwood che racconta la sottomissione delle donne usata dalla politica per asservire il corpo femminile e le sue funzioni riproduttive per i propri scopi. Certo il problema della denatalità è preoccupante perché se non cambia qualcosa è a rischio la tenuta del sistema scolastico, sanità e pensioni. Ma senza interventi pubblici la scelta continuerà a gravare sulle donne, soprattutto le giovani con contratti precari e guadagni inferiori agli uomini.
Un rapporto Istat riferito al 2022 rivela e conferma come incida negativamente la precarietà e la mancanza di lavoro della donna sulla natalità. Se c’è un figlio minore nella fascia di età tra i 25-54 anni il tasso di occupazione della mamma si ferma al 63% e al 56,1% con 2 figli contro il 90,4% del papà. È donna un terzo dei contratti part time e le dimissioni di madri fino a 29 anni nel 2021 sono state l’81%. «Troppe aziende sono contro la maternità: il 70% delle donne che nel 2022 ha segnalato difficoltà sul lavoro lo fa per questioni legate alla maternità, sia durante la gravidanza sia dopo il parto. Ho scoperto aziende che fanno firmare dei “patti di non gravidanza” alle dipendenti», racconta la Consigliera di Parità della città metropolitana torinese, l’avvocata Michela Quagliano, figura istituzionale che quando una azienda è denunciata per discriminazioni cerca di trovare una mediazione per evitare, prevenire l’azione giudiziaria. Una ricerca dell’Università Bicocca di Milano con interviste a donne di cultura medio alta, per il 55% entro i 34 anni e per il restante 45% entro i 50 anni, hanno indicato gli ostacoli nel pianificare la nascita di un figlio: non avere certezze sul lavoro, la maternità vissuta come un problema enorme per la realizzazione delle proprie aspirazioni in ambito professionale. C’è chi racconta che al ritorno dal lavoro «non ha più trovato la sua scrivania», altre sono state dimansionate, altre ancora non hanno avuto aggiornamenti sui percorsi formativi aziendali.
I congedi per la genitorialità sono visti come il maggiore ostacolo alla carriera finché il congedo di paternità non sarà paritario a quello di maternità come avviene in molti paesi europei. Spesso si dimentica che dove le donne lavorano nascono più bambini (le madri laureate lavorano nell’83,2% dei casi, precipitano al 37,4% chi ha solo la licenza media) e anche dove i territori sono più amici delle madri, come la Provincia autonoma di Bolzano, l’Emilia Romagna e la Val d’Aosta e non dove sono invece più sfavorevoli, come in Basilicata, Sicilia e Campania. Sono la presenza di asili nidi, mense scolastiche, tempo pieno che fanno la differenza. In Italia attualmente i servizi primari come gli asili nidi soddisfano solo il 26% dell’utenza contro una media europea del 35,3%, in Francia il 50,8%.
I figli costano. Alcuni dati sono illuminanti per capire la denatalità nel nostro Paese. Il 24,8% delle lavoratrici pur avendo una occupazione continuativa non riesce a raggiungere un reddito che superi i 15mila euro annui (in questa fascia gli uomini sono il 6,8%), stessa forbice anche negli stipendi medi e alti 39,3% delle lavoratrici contro il 66,7% lavoratori. Le donne con reddito alto sono il 35,6% contro il 60,6% degli uomini. Lavoro precario e sottopagato, povertà assoluta per 6 milioni di persone, carenza di welfare, pochi e costosi asili nido e di scuole a tempo pieno e con orari flessibili, ascensore sociale fermo, tagli alla sanità (dal 2023 uno ulteriore di 300 milioni di euro), depauperamento dei consultori che sono il primo presidio gratuito per le donne incinte e per la famiglia. Un elenco negativo da cui partire per correre ai ripari, a cominciare da urgenti investimenti sui giovani. Il 30% dei 30-34enni donne e uomini sono “neet”, non studiano e non lavorano. Generazioni dipendenti dai genitori, con una pesante insicurezza per il futuro e per mettere su famiglia. Si spera che almeno non si perda l’occasione del Pnrr per creare una rete capillare di servizi per la prima infanzia e politiche di equità sul carico della cura familiare.
Come risponde il governo all’allarme della denatalità? «La questione demografica alla quale abbiamo destinato un miliardo e mezzo in una manovra senza risorse è per noi una priorità assoluta», annuncia la premier Giorgia Meloni. Il ministro dell’Economia Giorgetti vorrebbe togliere le tasse a chi fa figli. Concretamente, la legge di bilancio prevede un mese di congedo parentale facoltativo pagato all’80% (anziché 30%). Da ricordare che oltre ai 5 mesi di congedo per maternità c’è anche quello facoltativo di nove mesi, tre per ciascun genitore e altri tre in alternativa tra padre e madre e può essere utilizzato nei primi 12 anni di vita del figlio. L’aliquota Iva è ridotta al 5% sui prodotti della prima infanzia. L’assegno unico universale che assorbe in un unico strumento l’insieme delle prestazioni per i figli a carico – detrazioni, assegni per nucleo, bonus bebè – è garantito in misura minima, 50 euro per figlio, a tutte le famiglie, anche con Isee superiore ai 40 mila euro, che sale con più figli. Misure ben lontane da quelle sventolate in campagna elettorale dalla Meloni: asili nido gratis e aperti fino a tardi, reddito per ogni bimbo di 400 euro al mese fino ai 6 anni, niente Iva sui prodotti della prima infanzia. Un’attenzione che si discosta da quella di altri Paesi dell’Ue. La Germania è dove si investe di più sulla famiglia. Il contributo universale è di 219 euro al mese dalla nascita ai 18 anni, e fino ai 25 anni se si studia o se si è disoccupati.
In Francia, che ha il tasso di fertilità più alto d’Europa, non a caso, le tasse si pagano a nucleo familiare, il che significa un guadagno con due figli di 3140 euro, e sale a 6280 con tre figli, Si aggiungono poi un premio alla nascita di 970 euro, assegni mensili dai 140 ai 500 euro a figlio, come sostegno in parte delle spese scolastiche. Ben lontana la situazione in Spagna, con aiuti economici solo per redditi sotto i 27 mila euro, sotto le 60 mila sterline in Gran Bretagna. L’Ungheria di Orban prevede agevolazioni fiscali (zero tasse per chi ha 4 figli) e diversi benefit. Situazione invidiabile nei Paesi Scandinavi dove oltre agli assegni e a una rete capillare di asili nido e servizi, anche le imprese contribuiscono alle politiche per la famiglia con incentivi al lavoro agile e orari flessibili. Modelli e misure su cui dovrebbe riflettere chi lancia l’allarme denatalità pensando che tocchi alle donne fare il loro dovere, dimenticando che la genitorialità va sostenuta con misure su più livelli, a cominciare da un lavoro dignitoso per tutti e servizi adeguati. © RIPRODUZIONE RISERVATA