“Il caso Lea Schiavi”. Indagine sull’omicidio di una giornalista antifascista, ignorata in Italia

“Il caso Lea Schiavi”. Indagine sull’omicidio di una giornalista antifascista, ignorata in Italia

Dal 1996, al Freedom Forum Journalists Memorial del Newseum di Washington si ricordano le migliaia di corrispondenti di guerra uccisi nell’esercizio del proprio lavoro e la trentacinquenne giornalista italiana è la prima reporter donna a essere nominata. «Ma per il suo Paese, per l’Italia, è invece come se non avesse vissuto, come fosse mai esistita», scrive Massimo Novelli, scrittore e giornalista torinese che dopo ottant’anni dalla sua scomparsa in Iran nel 1942 fa rivivere, attraverso accurate ricerche, la sua vita avventurosa e coraggiosa in un libro pubblicato da Graphot Editrice. Negli anni Trenta i suoi articoli apparivano con regolarità in vari giornali come il quotidiano “L’Impero” e rotocalchi come “l’Ambrosiano”,  “il Milione” di Cesare Zavattini, “Omnibus” fondato da Leo Longanesi

L’articolo di STEFANELLA CAMPANA 
OGNI ANNO, DAL 1996, al Freedom Forum Journalists Memorial del Newseum di Washington si ricordano le migliaia di corrispondenti di guerra uccisi nell’esercizio del proprio lavoro e Lea Schiavi è la prima reporter donna a essere nominata. Successe già nel programma televisivo americano They live forever “Vivono per sempre”, poco dopo il 24 aprile del 1942 quando venne uccisa a soli 35 anni nell’Iran del nord, non lontano da Tabriz. «Ma per il suo Paese, per l’Italia, è invece come se non avesse vissuto, come fosse mai esistita», scrive Massimo Novelli, scrittore e giornalista torinese che dopo ottant’anni dalla sua scomparsa fa rivivere, attraverso accurate ricerche, la sua vita avventurosa e coraggiosa nel libro “Il caso Lea Schiavi. Indagine sull’omicidio di una giornalista antifascista” (Graphot Editrice). 

Merita conoscerla questa donna che nel 1923 a soli 16 anni lascia per sempre la famiglia per essere libera e mantenersi da sola. Se ne va da Borgosesia dov’era nata per spostarsi per un po’ a Torino dove lavora in un negozio di dolciumi, poi a Milano dove c’è il fratello Giovanni, impiegata in una farmacia. Voleva essere indipendente. Viene dipinta da chi la conobbe come una donna che aveva paura di niente, spavalda, coraggiosa, schietta, con un chiassoso senso dell’umorismo, che sapeva ridere di cuore, ma soprattutto sinceramente antifascista. Non aveva potuto seguire gli studi ma sognava di diventare giornalista. Muove i primi passi a Milano come critica teatrale, poi autrice di due galatei moderni. Negli anni Trenta i suoi articoli apparivano con regolarità in vari giornali come il quotidiano L’Impero e rotocalchi come l’Ambrosiano,  il Milione di Cesare Zavattini, Omnibus fondato da Leo Longanesi. È pure collaboratrice di Tempo, nuovo settimanale della Mondadori. Una foto del 1939 a Milano la ritrae nella redazione insieme al poeta Salvatore Quasimodo e lo scrittore Carlo Bernari. Approda poi a Roma, la città dove le si spalancano molte opportunità, per lei amante del cinema. Ma è anche sempre più consapevole del baratro in cui l’Italia e l’Europa stanno per precipitare col fascismo e il nazismo. E certe sue “libertà” non passano sotto silenzio. In un resoconto della polizia c’è chi aveva  riferito che seduta al ristorante Bagutta con alcuni colleghi «la signorina Schiavi definì il Duce un muratore e il Fuhrer un imbianchino». 

Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, nel 1939, la ritroviamo inviata, un’eccezione per quei tempi,nei Balcani, poi a Bucarest, Sofia e Belgrado dove scrive reportage molto interessanti. I suoi articoli passano al vaglio della censura fascista ed è sempre più tenuta d’occhio dal Sim (servizio segreto militare). Dall’Italia parte un mandato di arresto e viene privata del passaporto. Lea Schiavi sarà sempre più attiva nell’impegno antifascista e aderisce al Free Italy Movement, in contatto con gli italiani di Radio Londra. Compie diversi viaggi  in Turchia, Siria, Iran, Kurdistan, Azerbaigian, aree geopolitiche turbolenti anche per la presenza di giacimenti petroliferi e occupate dalle truppe britanniche e sovietiche. Il suo ultimo reportage è dall’Iraq, uscito postumo dopo il suo assassinio tra le montagne dell’Azerbaigian da parte di sicari curdi. 

Un delitto impunito. Novelli ricostruisce con dovizia di documenti e giornali la situazione politica complicata in quell’area geografica. Chi impartì l’ordine di ucciderla? Agenti nazifascisti? I sovietici? Il marito Burdett, che Lea sposò a Sofia e che negli anni Cinquanta ammise di essere stato comunista e spia dell’Unione Sovietica, accusò come mandante il colonnello dei Carabinieri Ugo Luca, funzionario dello spionaggio fascista. Alla presenza di testimoni per due volte disse di essere stato lui l’organizzatore dell’uccisione di Lea, ma poi un testimone lo smentì al processo. Ugo Luca era stato nel Kurdistan nel 1942, una coincidenza che fa riflettere. Dopo l’8 Settembre si sarebbe avvicinato alla Resistenza e per l’omicidio di Lea Schiavi fu prosciolto dal Tribunale di Roma. Lo storico Mimmo Franzinelli, che per primo cercò di non far calare il silenzio sulla morte di Lea, denuncia nel suo ultimo saggio (Il fascismo è finito il 25 aprile 1945) come le ex camicie nere dopo il 25 aprile 1945 finirono in gran numero nella magistratura, polizia, negli apparati ministeriali, negli ambienti della letteratura, arte, giornalismo e università.

Dopo Lea Schiavi sono tantissime le giornaliste  morte in scenari di guerra, vittime collaterali, come Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli che però non sono state dimenticate. Merito di Massimo Novelli è aver ricostruito l’avvincente e tragica storia di Lea Schiavi per non farla cadere nell’oblio. Un oblio che è toccato anche a molte antifasciste italiane, trascurate dalla storiografia e dalle istituzioni. Ricordiamo  che 35mila donne fecero la Resistenza, 70 mila aderirono ai gruppi di difesa delle donne, 1859 furono vittime di violenza e stupro, 4635 arrestate, torturate, condannate, 2750 deportate, 623 fucilate o cadute in azione. Ma nelle celebrazioni quasi scomparse perché anche per la Resistenza la narrazione è stata maschile. È prevalso il tabù delle donne che esercitano violenza, romperlo significava riconoscere parità di genere. Solo diciannove partigiane ricevettero la medaglia d’oro. «La nostra presenza nelle formazioni armate e nelle organizzazioni di massa fu decisiva per le sorti del movimento partigiano. E lottavamo anche per noi stesse, per abolire lo sfruttamento, per rivoluzionare la concezione delle donne che il fascismo aveva radicato nel costume», scrisse la torinese Isotta Gaeta che appena sedicenne militò nella 107^ Brigata Garibaldi come staffetta partigiana e nella Resistenza cominciò a fare la giornalista con una sorta di rassegna stampa. Nel 1978 ha scritto “L’altra metà della Resistenza” con Bianca Guidetti Serra e Lydia Franceschi. Di sicuro Lea Schiavi è stata un’antesignana della donna libera, fuori dagli schemi che il fascismo riservava alle donne. Da sola ha realizzato i suoi sogni e con coraggio ha dato il suo contributo alla battaglia per la libertà, contro il fascismo. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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