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Il banchetto di Agatone e i triclini di Poseidonia, ad «inseguire l’unico cui si dà il nome di amore»

di Italia Libera   
Il banchetto di Agatone e i triclini di Poseidonia, ad «inseguire l’unico cui si dà il nome di amore»

«All’inizio c’erano tre generi di uomini, non due come ora, maschio e femmina, ma anche un terzo era presente insieme a questi due, il cui nome perciò appare al presente: androgino…»: è Platone, nel “Simposio”, ad aprire le danze alla mente, cui partecipa Socrate ed anche Alcibiade. Tra le imbattibili pappardelle di Montefusco e l’ubertosa piana del Sele, la meraviglia più attesa erano però loro, i tre templi di Paestum, un’ode classica, anzi dorica, «a quanto di bello e maestoso è riuscito a costruire l’ingegno umano» (“an das Schoene und Majestätische, was der menschlische Geist je geschaffen hat”). E poi l’incanto delle lastre sui quattro lati della “tomba del tuffatore” (l’anima che si tuffa nell’aldilà), la più antica policromia della Magna Grecia: furono loro ad ispirare il racconto del banchetto offerto dal tragediografo Agatone raccontato dal commediografo Aristofane?

Il racconto di HERR K.

«… ma è opportuno che prima vi insegni la natura umana e le sue sofferenze. È vero, infatti, che la nostra precedente natura non è la stessa di adesso, ma diversa. All’inizio c’erano tre generi di uomini, non due come ora, maschio e femmina, ma anche un terzo era presente insieme a questi due, il cui nome perciò appare al presente: androgino … dopo tutto ciò, l’aspetto di ogni uomo era rotondo, la base e i lati erano circolari e aveva quattro braccia e del pari quattro gambe, due facce su una sola testa, uguali in tutto ma una opposta all’altra, e quattro orecchie, e due sessi, e tutto il resto come si può presumere… Erano dunque dotati di forza e vigore tremendi e di grandi menti, tentarono di attaccare gli dei…»  (“… δεῖ δὲ πρῶτον ὑμᾶς μαθεῖν τὴν ἀνθρωπίνην φύσιν καὶ τὰ παθήματα αὐτῆς. ἡ γὰρ πάλαι ἡμῶν φύσις οὐχ αὑτὴ ἦν ἥπερ νῦν, ἀλλ᾽ ἀλλοία. πρῶτον μὲν γὰρ τρία ἦν τὰ γένη τὰ τῶν ἀνθρώπων, οὐχ ὥσπερ νῦν δύο, ἄρρεν καὶ θῆλυ, ἀλλὰ καὶ τρίτον προσῆν κοινὸν ὂν ἀμφοτέρων τούτων οὗ νῦν ὄνομα λοιπόν, αὐτὸ δὲ ἠφάνισται: ἀνδρόγυνον  …ἔπειτα ὅλον ἦν ἑκάστου τοῦ ἀνθρώπου τὸ εἶδος στρογγύλον, νῶτον καὶ πλευρὰς κύκλῳ ἔχον, χεῖρας δὲ τέτταρας εἶχε, καὶ σκέλη τὰ ἴσα ταῖς χερσίν, καὶ πρόσωπα δύ᾽ ἐπ᾽ αὐχένι κυκλοτερεῖ, ὅμοια πάντῃ: κεφαλὴν δ᾽ ἐπ᾽ ἀμφοτέροις τοῖς προσώποις ἐναντίοις κειμένοις μίαν, καὶ ὦτα τέτταρα, καὶ αἰδοῖα δύο, καὶ τἆλλα πάντα ὡς ἀπὸ τούτων ἄν τις εἰκάσειεν…ἦν οὖν τὴν ἰσχὺν δεινὰ καὶ τὴν ῥώμην, καὶ τὰ φρονήματα μεγάλα εἶχον, ἐπεχείρησαν δὲ τοῖς θεοῖς”) [189d -190b] (Dal “Simposio” di Platone, 384 a.C.)
COSÌ RACCONTA ARISTOFANE, il celebre commediografo, intervenendo per quarto nel banchetto che il tragediografo Agatone offre per una sua vittoria teatrale. In realtà è il racconto di un racconto, e dopo Aristofane intervengono Socrate, che, meravigliando tutti, si è pure messo in tiro per l’occasione, e Alcibiade, che, ancorché ubriaco, tesse un elogio sincero e motivato del suo maestro Socrate. Mica ominicchi, e tutti sul tema scelto dal medico Erissimaco, uno degli invitati: Eros, l’amore.

La citazione del Simposio di Platone (384 a. C.) era un buon scoop sul lido di Tiberio, badando a non ripeterlo a chi l’avesse già sentito. In ogni caso, delle argomentazioni dei convitati quella di Aristofane restava la più bella, oltre che la più famosa, passata ai posteri, anche se un po’ impropriamente, come il “Mito dell’Androgino”. E dipanare tutto il mito creava sempre momenti di sicura attenzione: «Quegli uomini erano troppo potenti, e li colse la ὓβρις (tracotanza) di attentare al potere degli Dei. Giove allora decise non di ucciderli, per non perdere gli esseri in grado di adorare gli Dei, ma di dividerli in due per renderli più deboli. Da quella divisione nacque il desiderio di ogni parte di ritrovare l’altra metà, da cui era stato diviso. Del tutto paghi dell’essersi ricongiunti, gli uomini sarebbero morti di torpore e di inedia. Allora Giove, per evitare la loro fine, mandò Eros — oh, ha le carte in regola come una delle quattro divinità primordiale, garantisce Esiodo — perché alla ricostruita unità potessero corrispondere piacere, procreazione e attività».

L’inevitabile riflessione che ogni metà si ricongiungeva alla sua metà uguale – maschio con maschio, femmina con femmina, maschio con femmina nel caso dell’androgino – lasciava stupiti sulla modernità dei costumi sessuali degli antichi Greci. LGBT ante litteram, per di più glorificato da un mito. Uno stupore che veniva fortemente attenuato dalla rivelazione che l’amore uomo-donna era considerato inferiore, la “venere terrigna”, non solo dai commensali di Agatone, ma ancora, parecchio tempo dopo, dallo stesso Aristotele. 

«Beh, che facciamo? Partiamo?». La domanda gli veniva rivolta da alcuni degli amici, alluzzati all’idea di un’altra mini-avventura. A ricongiungere la “Destra” e la “Sinistra” del lido di Tiberio erano stati loro, lui e A., la bella donna la cui altezza e il cui aspetto — gambe lunghe, sorriso aperto e temperamento anche troppo — gli avevano fruttato un ragguardevole numero di monotoni: «Ma come ha fatto a mettersi con te?». La “Destra”, costituita sostanzialmente dai “Fondani”, occupava proprio il lato destro rispetto al percorso, dritto, che dalla spiaggia saliva alle docce dello stabilimento. La “Sinistra”, a predominanza romana, erano intellettuali, tra i quali alcuni professori universitari. Le tradizionali ritrosie ideologiche della “Sinistra” erano state superate perché i “Fondani” erano persone squisite e ospitali. Il terreno di convergenza era stato quello di piacevoli raid culinari o, a Fondi, il gioco notturno del “ruba bandiera” nella bella piazza in pietra, dal castello baronale del XIII secolo alla Chiesa di San Francesco. E vari ragazzotti avevano chiesto, esauditi, di partecipare. Di lato, su quella piazza, avevano aperto un locale e quando il gruppo “Tiberio” era entrato, un ventenne aveva ironizzato: «Ecco la quarta età». Ma stavano tutti quei ragazzi un po’ come morticini, conformisti della happy hour, con una musica veramente zombie. Con E., medico primario napoletano, erano zompati sulla mensola attorno alla colonna centrale, e, invitato il DJ a mettere su qualcosa di decente, avevano cominciato a esibirsi. In modo travolgente. I morticini erano risuscitati con una partecipazione che era stata di per sé stessa un ringraziamento.

Il primario napoletano aveva contribuito non poco, con delle feste nella sua villa. Rimarchevole, perché occupava una posizione dominante in uno dei punti più belli della costa. Vista da lassù il paragone con la Amalfitana non appariva certo improprio. Ma il clou del “pacchetto divertissment” erano senz’altro le lunghe gite. Nelle suggestive Grotte di Pastena, con le meraviglie di stalattiti e stalagmiti nel volo radente dei pipistrelli. O, passando per Lenola, a Campo di Mele, borgo accreditato della più alta percentuale di centenari, dove un violento fortunale aveva impedito addirittura di raggiungere il ristorante. 

La trasferta più impegnativa e più attesa era però ritornare a Paestum, quei tre templi che sono un’ode classica, anzi dorica, an das Schoene und Majestätische, was der menschlische Geist je geschaffen hat (a quanto di bello e maestoso è riuscito a costruire l’ingegno umano, ndr). Fatta ad agosto era senz’altro impegnativa, a non avere l’aria condizionata in auto. E, in ogni caso, il nodo di Salerno era un vero incubo. Già, ma dopo vent’anni l’avranno sistemato? Conclusione degna era stata, la prima volta, la parte finale in Irpinia presso una cantina che produceva “Fiano”, “Greco” e “Coda di volpe”. Ottimi vini, e il viticoltore era stato in precedenza un professore, tornato nella sua terra fuggendo da una stupenda cittadina veneta dove però la Sinistra non superava il prefisso telefonico. Come lamentava anche C., amico del professore ma che ancora viveva lì, mentore di quella parte finale del raid e attuale militante, anche lui, del “lido di Tiberio”. 

Pappardelle imbattibili con arrosti vari avevano chiuso la serata al fresco di Montefusco, un paesotto di alta collina che dominava in lontananza la piana di Lucera. Il ristorante stava quasi dirimpetto a uno dei tanti edifici con cui Federico II ha lardellato il Sud, prigione degli insorti a Napoli nel 1799. Un rientro nelle ore piccole aveva suggellato l’escursione. Il boccone un po’ indigesto era stato che la gran parte dei preziosi reperti del museo archeologico di Paestum non erano in esposizione. Con la targhetta: “Presso il Sovrintendente”.

Ma quella volta, quando finalmente avevano raggiunto Paestum, le cose erano andate diversamente. La piana del Sele, che ospita vicino alle foci quei templi meravigliosi, è uno dei luoghi di più antico insediamento d’Italia. Già antropizzata in epoca neolitica, tra la metà del III millennio e l’inizio del II millennio a. C. era stata occupata dalla civiltà del Gaudo, popoli egeo-anatolici, che, a due tiri d’arco a Nord del tempio di Poseidone, avevano costruito una loro necropoli con le tombe a “forno”. Grandi lame in selce finemente lavorate, punte di frecce triangolari con alette e peduncolo, la rarità delle lame di rame erano altri elementi caratterizzanti quella civiltà, insieme al più antico askós d’Italia, un vasetto per liquidi oleosi a forma ovoidale, nero come i buccheri. Il vasellame “globulare”, un’unica lama di rame a forma di pugnale cicladico, gli studi antropologici che riportavano una maggior altezza media rispetto agli altri popoli italici, supportavano l’ipotesi egeo-anatolica della loro origine. Nel II millennio a. C. una civiltà tecnologicamente più avanzata aveva soppiantato quella del Gaudo. In piena età del bronzo. 

Fondata dalla polis di Trezene, insieme ad alcuni coloni Achei, Sibari, il più potente e prospero centro della Magna Grecia, aveva stabilito sulle coste tirreniche alcuni scali commerciali, ma sulla piana del Sele ci erano arrivati dall’interno e nella seconda metà del VII a. C. era nata Poseidonia. Nel VI a. C. era iniziata la costruzione del tempio di Hera, un tributo alla dea in riconoscimento dell’importanza e della prosperità già raggiunta. 

Molti elementi di questa storia erano divenuti finalmente visibili nel museo archeologico nazionale di Paestum, l’antica Poseidonia, a partire dalle metope restaurate del tempio di Hera. Le teche non avevano più cartellini al posto dei reperti e, soprattutto, poco tempo prima, si era concluso il restauro della “tomba del tuffatore”. Il racconto, scontato, dell’anima che si tuffa nell’aldilà non lo aveva preso più di tanto, ma gross war die Aufregung (forte era stata l’emozione, ndr) quando, distogliendo lo sguardo da quello che era il “pezzo forte” della sala, aveva visto attorno le altre lastre della tomba, su cui erano dipinte coppie di uomini serenamente partecipanti a un banchetto. Certo, la più antica policromia della Magna Grecia, ma, incredibilmente, la disposizione e i gesti non potevano non richiamare il banchetto offerto da Agatone. Unglaublich! Quale lo aveva riportato quasi un secolo dopo Platone, che aveva frequentato i Greci d’Occidente, soprattutto la Siracusa dei tempi di Dionisio il Vecchio (388 a. C.). Aveva avuto modo di vedere quei triclini dipinti o ne aveva in qualche modo tratto ispirazione? 

Quel che era certo era che la conclusione del mito raccontato nel Simposio da Aristofane non poteva suonare più adeguata. In quella sala. Davanti a quegli antichi. «τοῦ ὅλου οὖν τῇ ἐπιθυμίᾳ καὶ διώξει ἔρως ὄνομα», «Dunque, all’inseguimento e al desiderio dell’unico si dà il nome di amore». Un epifonema, tanto breve quanto universale, da confrontare col più folgorante incipit della storia della letteratura: «Chiamatemi Ismaele». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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