Il 30 aprile 1975, un viaggio in Vietnam e la casa di Marguerite Duras: “Giap Giap, Ho Chi Min!”

Si era alzato prima del solito, quella mattina. Mentre si stava radendo, la radiolina a transistor stava diffondendo le notizie del giornale radio. Sì, era così! I Vietcong erano entrati in Saigon, drammatica la fuga dall’ambasciata americana con le persone a grappolo dall’elicottero in decollo. Non riusciva a crederci, ma si sapeva che sarebbe andata a finire così. “Ma che c’andiamo a fare in Vietnam?”. L’interrogativo rimbalzava tra gli amici, lì nell’aeroporto dello scalo intermedio. Il Vietnam si era rivelato in realtà un paese meraviglioso. La grande baia di Halong, patrimonio universale Unesco, con un migliaio di faraglioni, i denti del drago gigante della leggenda. I bachi da seta e l’antica capitale Hue, coi laghetti attorno al mausoleo di Tu Duc, l’imperatore triste per la morte della sua amata, nonostante il centinaio di concubine. Non era mancata una sosta a Sa Dec, nella villetta doveva aveva soggiornato Marguerite Duras, la casa del ricco giovane cinese che lei aveva amato appena quindicenne
Il racconto di HERR K.
SI ERA ALZATO prima del solito, quella mattina. Mentre si stava radendo, la radiolina a transistor stava diffondendo le notizie del giornale radio. Sì, era così! I Vietcong erano entrati in Saigon, drammatica la fuga dall’ambasciata americana con le persone a grappolo dall’elicottero in decollo. Non riusciva a crederci, ma si sapeva che sarebbe andata a finire così. E il giorno dopo, nella manifestazione del 1° maggio a Piazza San Giovanni, Luciano Lama avrebbe stronfiato per ben tre volte: «Un piccolo popolo di contadini!».
Fu preso da un’ansia quasi febbrile, bisognava correre all’università che continuava a essere il centro del movement. E sbrigarsi, pena trovare quel budello della Nomentana intasato dal traffico di macchine incolonnate per celebrare la festa. Già, perché erano tanti quelli che avevano preso parte per i Viet Cong. Lui, in particolare, quando vari mezzi busti, o interi, discettavano in Tv di “vietnamizzazione del conflitto” si divertiva a replicare mentalmente: “Sì, fino alla Turchia”. Ma non aveva saputo replicare adeguatamente, se non sollevando l’impraticabilità politica mista a stilemi di sapore un po’, ahimè, cattocomunista, al suo collega P., che gli stava pure simpatico, quando l’anno prima aveva affermato con razionale nettezza che l’unica per gli Usa era sganciare un’atomica nel golfo del Tonchino. Se fosse bastata. Accidenti! Perciò non si era certo trattenuto dal ridacchiare sotto i baffi quando, al mare, la ragazza di P., seno vasto come gli piaceva ma inevitabilmente sculata, aveva apostrofato P. con un calmo ma secco “stronzo” per una manovra sbagliata col pattino. Con voce più gelida di quegli occhi intransigentemente chiari.
Sulla Nomentana in realtà non c’era nessun corteo di auto. E l’attesa restò delusa anche alla “Sapienza”. Tutti in aula! Era veramente incredulo e incazzato. Racimolò due colleghi, e amici, che subito si mostrarono disponibili. Cominciarono a interrompere le lezioni in corso a Fisica, come a Matematica e a Chimica. Allora era uno sport agevolmente praticato. Si formò un bel corteo che girò per i viali, per la piazza della Minerva, la statua sullo specchio d’acqua al centro dell’Ateneo, scandendo vari slogan. Immancabile il “Giap, Giap, Ho Chi Min!”, con quel “in” finale allungato dalla contentezza e dall’orgoglio. Sulla scalinata di Fisica Vecchia erano ancora un centinaio, c’era anche qualche tuta blu delle officine dei dipartimenti e un po’ di tecnici in camice bianco. Lui non era davvero un oratore e pregò O. di “chiudere” con un bel saluto. O. fu conciso ma riuscì a toccare tutti i tasti dell’internazionalismo proletario, legando la vittoria Viet anche al conflitto sociale in Italia con l’inevitabile riferimento alla Fiat. Ottimo e abbondante, e per quel che poi gli risultò in seguito, quella era stata l’unica manifestazione di un qualche impatto che si era tenuta in Italia nel giorno della caduta di Saigon.
“Ma che c’andiamo a fare in Vietnam?”. L’interrogativo rimbalzava tra gli amici, lì nell’aeroporto dello scalo intermedio. Lui aveva un’assoluta certezza, i tre giorni a fine viaggio che, risalendo il Mekong, sarebbero stati dedicati ad Angkor Vat. Un “impegno” che aveva preso da ragazzino, quando la madre di un suo amichetto aveva fatto veder loro le slide di quella incredibile, colossale area di templi e di foresta tropicale. “Ci devo assolutamente andare!” e, appena cinquant’anni dopo, lo stava facendo. E proprio lì si sarebbe prodotto, con un suo amico, nella scalata al “tempio dei forti”, come avevano ribattezzato con non celato orgoglio uno dei tanti bei templi, il cui accesso di faticosi e irregolari scaloni, erti di di pietra, aveva sconsigliato alcuni giovani turisti ad avventurarsi. Benedicente, uno di quegli alberi le cui radici a forma poliedrica si incastonavano in mura e pietre in una compenetrazione svellente ma in definitiva armoniosa.
Il Vietnam si era rivelato in realtà un paese meraviglioso. La grande baia di Halong, patrimonio universale Unesco, con un migliaio di faraglioni, i denti del drago gigante della leggenda. E quella stupenda grotta che reclamava con buona ragione di essere l’ottava meraviglia del mondo. I grandi fiumi del Nord testimoniavano l’abbondanza di acqua e di riso, insieme a un’antichissima civiltà, come l’altra grande civiltà “idraulica”, quella cinese. Anzi, a colpi di musei e letture, i miti dei due popoli, in qualche misura sovrapposti, gli rendevano plausibile vagheggiare che proprio quell’area di confine, non la valle dello Yang Tse Kiang, fosse stata l’arcaica madre comune. Ma quale piccolo popolo di contadini!
Ad Hanoi si venerava in un tempio — lungo il laghetto “L’épée resituitée”, che metteva insieme nella leggenda spade, tartarughe e imperatore — non un dio ma un grande guerriero, che aveva difeso il paese da ogni tentativo di invasione. “Una costante storica”, ragionava mentre mangiavano in un ristorantino il “pho bo”, il brodo di pollo con ‘capellini’, come in tempi moderni avrebbero imparato a loro spese i Francesi, con Alain Delon legionario a 18 anni a Dien Bien Phu, e, non molti anni dopo, gli Americani. Hanoi, una città dove i milioni di veicoli a due ruote sembravano rispettare l’obbligo di almeno tre persone sopra.
Le risalite di fiumi con quei paesaggi da “La tigre e il dragone”. I bachi da seta e l’antica capitale Hue, coi laghetti attorno al mausoleo di Tu Duc, l’imperatore triste per la morte della sua amata, nonostante il centinaio di concubine. La discesa lungo la costa, con una formidabile mangiata di pesce e frutti di mare in riva al mare a Danang, quella dei bollettini di guerra di quarant’anni prima. Le grandi piantagioni di caffè, quello “robusto”. Ristoranti affollati da un turismo ormai soprattutto indigeno, punti di sosta dove si potevano gustare padellate di cavallette o orribili artropodi terrestri. “Ma che sapore hanno?” “Un po’ simile al pollo”, gli aveva risposto con un ambiguo sorriso l’autista che ne stava mangiando una mescolanza.
Non era mancata una sosta a Sa Dec, nella villetta dove aveva soggiornato Marguerite Duras, con appesi i poster del film “L’amante” (Jean Jacques Annaud). In realtà era la casa, fatta museo, del ricco giovane cinese che lei aveva amato appena quindicenne. Una vicenda che era stata materia rilevante, e secondo lui ossessivamente ripetitiva, della sua ricerca dell’amore come della sua poetica. Vittorini aveva definito “La diga sul Pacifico” (1950) il miglior romanzo francese del Dopo guerra. Lallero! Forse, perché sapeva non poco di Hemingway e Steinbeck. Ma, nonostante gli elogi, anche di Calvino, non lo aveva mai convinto quello stile “paratattico”, come lei stessa aveva definito il procedere per sole parti principali della frase. Una prosa “metafisica”, estraniante, che per alcuni aspetti richiamava quella di Albert Camus — un altro scrittore eccentrico e ‘coloniale’ del Novecento francese — che per lui restava, però, uno degli “imbattibili”. Ma chapeau a quella donna minuta, cui, avesse avuto o meno trecento amanti, era stato riconosciuto un ruolo letterario primario e che, come regista e sceneggiatrice, aveva realizzato alcuni grandi film. “Hiroshima mon amour” (Alain Resnais) ricordò agli amici, senza inoltrarsi nella fondamentale sperimentazione che la Duras aveva avuto con il gruppo del Nouveau Roman.
La strada procedeva nell’interno verso sud, per un tratto costeggiata da piantagioni di caucciù, dove alle incisioni degli alberelli erano applicate scodellette per la raccolta di quella linfa. E poi l’epico triangolo di Cu Chi, con i suoi infiniti tunnel sotterranei, che aveva fatto impazzire per anni gli americani. Goffo il tentativo di entrare in una delle buche nascoste nel terreno, dal quale, al contrario di qualcuno degli amici, si era rigorosamente astenuto. Patentemente accessibili solo ai Viet, minuti e allenati. Infine, Saigon. Ora, da molto tempo, Città Ho Chi Min.
L’albergo dove avevano preso alloggio non era forse quello ‘coloniale’ di tanti film, restaurato, ma la piazza sotto ricordava quelle riprese. Si stavano celebrando i settant’anni di fondazione del Partito Comunista Vietnamita, in un Paese che era riuscito a fare del suo ultimo invasore un partner non solo commerciale. E aveva aperto la strada al sistema di mercato privato accanto a quello pubblico, senza le ipocrisie e i sotterfugi praticati a suo tempo dall’Urss e con un clima generale che non appariva così repressivo come quello cinese. Oddio…
Su quel terrazzo indorato da un benigno tramonto, i bicchieri di Negroni, che, come sua tradizione di viaggio aveva insegnato al barman di turno, si levarono per un tintinnio. Insieme a un sorriso autoironico: “Giap, Giap, Ho Chi Min!” © RIPRODUZIONE RISERVATA
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