I morti sul lavoro offendono il nostro Paese. Una riforma organica per fermare lo stillicidio

Gli addetti alla sicurezza preposti dai datori di lavoro devono scegliere tra l’incudine del magistrato penale e il martello del vertice aziendale se deve decidere l’interruzione della lavorazione. Nei lavori di appalto committente, datore di lavoro ed esecutore delle attività devono cooperare e coordinare la sicurezza fra le imprese coinvolte; nel decreto fiscale di dicembre, l’obbligo è rimasto ma è scomparsa la sanzione. Un decalogo per fermare lo stillicidio mortale e dare ordine a singole disposizioni che, messe in pratica, disperdono la carica innovativa delle norme
L’analisi di RAFFAELE GUARINIELLO
CHE SIA LA VOLTA buona? Che sia finito il tempo delle mere parole di esecrazione e di sconforto? I morti sul lavoro continuano a offendere il nostro Paese, ma spero di non peccare d’ottimismo se avverto finalmente i primi segnali di un dibattito sulle specifiche azioni necessarie per garantire in concreto la tutela della salute e della dignità nei luoghi di lavoro.
Non è il caso d’illudersi, naturalmente. Pressante è, in particolare, l’esigenza di non disperdersi in suggerimenti di contorno o in singole proposte aneddotiche, estemporanee, dai bollini alle patenti. Ci vuole una riforma organica, sistematica, che non si limiti a toccare questo o quel profilo formale o burocratico. L’esperienza della legge 215 di conversione del decreto fiscale dovrebbe illuminarci. Singole disposizioni possono magari offrire indicazioni potenzialmente promettenti, ma finiscono poi per calarsi in contesti inappropriati e disperdere di fatto la fantasticata carica innovativa.
Prendiamo le norme che impongono al datore di lavoro l’obbligo di individuare i preposti per l’effettuazione delle attività di vigilanza sui lavoratori, e che in caso di prassi lavorative insicure impongono ai preposti, non di limitarsi ad avvertire i loro superiori diretti, ma addirittura d’interrompere l’attività. Certo, queste norme si preoccupano anche di lusingare e rassicurare i preposti. Prevedono, infatti, che i contratti e gli accordi collettivi di lavoro possono stabilire il loro emolumento per lo svolgimento delle attività di vigilanza, e intimano che i preposti non subiscano pregiudizio alcuno a causa dello svolgimento di tali attività. Ma mi chiedo: negli attuali assetti organizzativi, siamo proprio sicuri che in concreto, ad esempio al momento di dover decidere l’interruzione della lavorazione, il singolo preposto non vivrà un drammatico, paralizzante dilemma tra rispetto del magistrato penale e ossequio al vertice aziendale?
D’accordo, la nuova legge spaventa le imprese che non fanno sicurezza, in quanto obbliga gli ispettori a sospenderne l’attività in caso di gravi violazioni antinfortunistiche. Ma quali sono queste gravi violazioni? Si tratta di tredici particolari violazioni indicate in un apposito elenco. Prendiamone una, quella potenzialmente più grave di tutte: la violazione dell’obbligo del datore di lavoro in persona, del vertice stesso dell’impresa, di analizzare uno per uno tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa svolta nella sua azienda e di segnalare in un apposito documento le misure di prevenzione e di protezione effettivamente adottate contro ciascun rischio. Si tratta proprio della violazione che nella prassi causa il maggior numero di infortuni. Tutto bene, allora? No. Perché stando alle parole usate dalla legge (“mancata elaborazione del documento di valutazione dei rischi”), la violazione giustifica la sospensione dell’attività, a condizione, però, che il datore di lavoro ometta radicalmente di elaborare il documento di valutazione dei rischi, e, quindi, non nelle ipotesi in cui tale documento, pur formalmente non mancante, sia per le più diverse ragioni incompleto, insufficiente, inadeguato, generico, non veritiero, e, dunque, a ben vedere, non nelle ipotesi che abitualmente emergono come causa d’infortunio.
Ecco perché mi aspetto dal Governo e dal Parlamento una riforma organica, destinata a rimediare alla crisi in atto: vuoi del sistema ispettivo, vuoi della giustizia penale. La crisi del sistema ispettivo, anzitutto. Bene, malgrado le polemiche sollevate da settori nostalgici, l’arrivo in forze di un nuovo Ispettorato Nazionale del Lavoro, con competenza sulla generalità dei luoghi di lavoro. Ma le Asl le abbandoniamo nelle attuali, scoraggianti condizioni di organico e di professionalità? E in assenza almeno per ora di una unitaria Agenzia Nazionale, continuiamo a trascurare l’irrinunciabile coordinamento tra gli ispettori dei molteplici, distinti organi di vigilanza, e a non scongiurare le diverse applicazioni e persino interpretazioni delle leggi spesso lamentate dalle imprese a seconda della zona di intervento?
Ma c’è anche la crisi della giustizia penale esplosa in materia di sicurezza del lavoro. Sono, anzitutto, necessarie nuove norme nel codice penale e nel Testo Unico sulla Sicurezza del Lavoro per chiudere i varchi aperti da una giurisprudenza della Cassazione diventata meno severa rispetto al passato su temi centrali quali i cantieri, gli appalti, le morti dei terzi come nel caso di Viareggio, i tumori (amianto in testa), i disastri dentro e fuori dell’azienda. E quanti punti da rivedere in un ormai non rinviabile Decreto Lavoro. Alcuni esempi tra le decine che ho avuto occasione di segnalare nelle sedi opportune:
datori di lavoro non di comodo, ma effettivamente dotati dei massimi poteri decisionali e di spesa nelle società per azioni e nelle pubbliche amministrazioni; r
responsabili dei servizi aziendali di prevenzione e protezione non caricati di controproducenti compiti operativi in aggiunta ai propri tipici compiti meramente consultivi;
medici competenti nominati non solo in casi particolari, ma ovunque ne risulti la necessità per la valutazione dei rischi e l’individuazione delle necessarie misure di protezione;
grandi aziende non esonerate da responsabilità per lavori rientranti nel proprio ciclo produttivo ed opportunamente esportati in piccole imprese sfuggenti ai controlli (abbiamo dimenticato i sei morti a Molfetta per intossicazione acuta da acido solfidrico entrati senza protezioni uno dopo l’altro per soccorrersi dentro una cisterna affidata a una piccola ditta per il lavaggio?);
datori di lavoro non più assolti per mano della Cassazione dal reato di frode processuale nel caso in cui, prima dell’intervento degli inquirenti nell’immediatezza di un infortunio modifichino lo stato dei luoghi nel timore di una un’altrimenti inevitabile condanna.
E poi quella procura nazionale sulla sicurezza del lavoro da ultimo patrocinata in un lodevole disegno di legge in discussione al Parlamento, ma che sembra tanto togliere il sonno a più d’uno. E allora diciamone oggi le dieci, diverse finalità:
1) affrontare con indagini incisive e rapide le grandi tragedie che continuano a verificarsi nel nostro Paese
2) svolgere finalmente in tutto il territorio nazionale azioni organiche di prevenzione in ordine ai problemi che maggiormente insidiano la vita e la salute dei lavoratori, anche, ma non solo, traendo spunto dalle tragedie ormai consumate
3) adottare metodologie di indagine realmente penetranti e più affinate rispetto a quelle usualmente adottate: non bastano atti quali l’ispezione, le testimonianze, la richiesta di documentazioni all’azienda, l’affidamento di una perizia, ben più fruttuosi sono atti come la perquisizione (anche e anzitutto all’interno dei computer e supporti informatici o dei server accessibili dalle sedi aziendali)
4) andare in tutto il territorio nazionale alla ricerca dei tumori professionali perduti, organizzando un osservatorio del tipo funzionante dagli anni novanta presso la Procura della Repubblica di Torino, purtroppo con competenza limitata al circondario di questa procura
5) porre rimedio all’attuale, fuorviante frammentazione delle indagini su situazioni analoghe quando non identiche che si verificano tra i lavoratori di aziende facenti capo alla medesima società o al medesimo gruppo e operanti in diverse zone territoriali: ogni singola procura della repubblica o addirittura non valuta il fenomeno, o ne valuta autonomamente un solo aspetto, con il risultato, ad esempio, che le indagini sui tumori professionali occorsi a lavoratori di stabilimenti della stessa società esercenti la medesima attività e situati in diverse parti del territorio italiano si chiudano in una zona con la condanna e in altre zone nemmeno si aprano o finiscano con un’archiviazione
6) favorire l’apertura di nuovi scenari giudiziari per ora largamente inesplorati in rapporto a ipotesi di reato finora largamente trascurate nel campo della sicurezza sul lavoro, primi fra tutti i delitti di omissione di cautele antinfortunistiche o di disastro che può essere interno agli stabilimenti, ma che può anche essere un disastro esterno, in aree private e pubbliche al di fuori degli stabilimenti, e presso le abitazioni private dei lavoratori
7) istituire un irrinunciabile punto di coordinamento per i molteplici organi di vigilanza operanti in Italia: dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro alle Asl, dai vigili del fuoco ai servizi tecnici (purtroppo ancora oggi “domestici”) creati presso amministrazioni pubbliche quali le forze armate e le forze di polizia
8) porre fine alla larga disapplicazione della responsabilità delle stesse imprese pur affiancata dal 2007 alla responsabilità penale delle persone fisiche anche per infortuni sul lavoro e malattie professionali, ma purtroppo non ancora dappertutto assimilata da ispettori e pubblici ministeri malgrado più facilmente schivi quel rischio di prescrizione che tanto insidia la responsabilità penale
9) sviluppare su tutto il territorio nazionale i rapporti del pubblico ministero con l’Inail oggi come oggi trascurati in più sedi giudiziarie, e invece resi obbligatori ai fini dell’eventuale costituzione di parte civile e dell’azione di regresso.
10) agevolare una più efficace gestione dei non facili rapporti con le autorità giudiziarie di altri paesi: quante volte abbiamo dovuto occuparci di casi nei quali infortuni o malattie professionali si sono verificati in stabilimenti facenti capo a società multinazionali, quante volte abbiamo dovuto ricorrere alle c.d. rogatorie, e, cioè, chiedere alle autorità giudiziarie di altre nazioni di svolgere le indagini per conto nostro, e quante volte le risposte — per giunta spesso insufficienti — si sono fatte attendere mesi, a volte persino anni, o proprio non sono arrivate.
E allora più che mai: sarà la volta buona?