I cento anni di Pier Paolo Pasolini: “in direzione ostinata e contraria”, sempre

Un secolo fa, il 5 marzo del 1922, nasceva a Bologna Pier Paolo Pasolini, poeta, scrittore, attore, sceneggiatore, regista e versatile pittore. Uomo di cultura a tutto tondo e critico osservatore dei cambiamenti di un’iniqua società che combatté fino alla fine, suscitò spesso aspre polemiche a tutto campo. Dalla destra fascista alla sinistra comunista, ai benpensanti: scandalizzò tutti con la sua dichiarata omosessualità che gli costò la vita. Ebbe decine tra denunce, querele e processi, conclusisi quasi tutti con assoluzioni, prescrizioni o superati da amnistie. Diversi anche i sequestri delle sue opere filmiche per oltraggio al pudore
L’articolo di CARLO GIACOBBE
FOSSE STATO COMMISURATO alle vocazioni, agli interessi, alle passioni, alle idiosincrasie di PPP, non breve sarebbe stato il Novecento, ma il secolo infinito. Pier Paolo Pasolini, che avrebbe compiuto cento anni il 5 marzo, è mancato ai vivi quasi 50 anni fa. Era il 2 novembre del 1975, luogo e circostanze orribili ma non imprevedibili. Senza che sembri provocatorio o azzardato, non credo si possa escludere che si sia trattato di una forma strana quanto atroce di cupio dissolvi. Su quella fine, su cui non si hanno certezze, torneremo.
Chi era, in fondo, Pasolini? Un grande intellettuale, tra i maggiori del suo tempo, come tutti sanno ma che pochi conoscono attraverso le sue opere. Che toccano campi diversi, alcuni molto lontani tra di loro. Poeta, vernacolare e italiano, narratore, saggista, insegnante (sì insegnante, non pedagogista e ancor meno pedagogo, come qualcuno si compiace di dire), etnografo, paroliere, polemista, linguista, traduttore, giornalista e inviato, pittore, calciatore, drammaturgo, sceneggiatore, regista. Per quanto aspirasse a dominare in ciascuna di quelle attività, in virtù di una forza intellettiva e spirituale raramente concentrata in un’unica persona, Pasolini non poté eccellere in tutte. Lo fece, a mio modo di vedere, nella poesia, penso soprattutto a Le ceneri di Gramsci e a L’Usignolo della Chiesa cattolica e nel cinema, dove ci ha consegnato capolavori come Accattone, Mamma Roma, Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Teorema, I racconti di Canterbury, Il fiore delle Mille e una notte e l’ultima sua opera, uscita postuma, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Meno convincente, secondo me, nella narrativa; in particolare i due romanzi di esordio ambientati nelle borgate romane, Ragazzi di vita e Una vita violenta. Che però, come in una gotica premonizione, sembrano predefinire l’ambientazione del più impossibile dei docufilm, quello sulla vita e la morte di sé medesimi.
Pasolini non è stato semplicemente complesso (solo uno fra gli innumerevoli ossimori che si addicono alla sua esistenza), ma un groviglio, un viluppo di idee, sensazioni, esternazioni, solipsistici silenzi, avventurose sortite, rischiosissime sfide. Ha preso parte al gioco della propria psiche e degli affetti, con i caleidoscopici rimandi tra amore filiale e passione omofila; nel suo rapporto con la madre ha fatto emergere l’unica forma di coerente rispondenza a un luogo comune (ma non perciò men che vero), tra omosessualità e legame con la donna che lo ha messo al mondo. Con lei tenero e femmineo, quasi per un gioco di morbida, sensuale, muliebre solidarietà; coi suoi scugnizzi, femminielli, soldatini, monelli, ancipiti nel declinare le proprie più o meno indotte pulsioni (quasi sempre per una contropartita), invece, Pasolini tornava a essere duro, spigoloso come il suo volto, esigente e chissà, talvolta minaccioso. Ne testimoniavano i segni fisici che restavano sul suo corpo, tonico e aitante, pure nella magrezza, come quello di un fachiro. Segni che, per esempio, gli amici e i compagni di viaggio, pur non osando chiedere, ritrovandolo al mattino gli vedevano materializzati sul volto e sulle membra. E tutti sapevano che le stesse labbra da cui scaturiva una voce gentile, dall’eloquio estremamente preciso ed elegante con cui di giorno si discuteva di arte, poesia, politica, antropologia, quando lui a sera spariva, per farsi ingoiare dal buio, che fosse di foreste o di eliotiane desolate lande, erano labbra che sibilavano e forse gemevano parole di ben altro significato, con toni primordiali di imperio e anche di masochistica supplica.
Non fosse morto ucciso, straziato a 53 anni sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, in una fredda notte autunnale, di lui – dopo così tanti anni – si parlerebbe quasi di sfuggita, in occasionali cenacoli di studiosi, in seminari universitari, nei circoli dei cinefili. Invece, anniversari a parte, quelle tre “P” ancora si impongono all’attenzione, spesso solo pruriginosa, di lettori occasionali e curiosi. Nell’Italia dei misteri e dei complotti, figurarsi se poteva sfuggire “il caso Pasolini”. Così, periodicamente, si leggono ricostruzioni, testimonianze dirette quanto tardive, inchieste, che dichiarano di aver fatto luce su quella che i gialli e i vecchi rotocalchi usavano definire “la dinamica del delitto”. E in un’orgia tragica di esplosive bilabiali sorde (avrebbe detto il Pasolini linguista) si “scopre” che alle altre due “P” che entrano nell’ultima partita giocata dal poeta, le iniziali dell’assassino ufficiale Pino Pelosi, anche altri coautori potrebbero o dovrebbero aggiungersi al diciassettenne ladruncolo e prostituto che era stato con lui la notte della morte. Oppure, che grandi potentati economici potevano essere i mandanti dell’eliminazione di una voce divenuta scomoda, soprattutto dopo che Pasolini aveva cominciato a indagare sui rapporti tra il responsabile dell’Eni, Enrico Mattei, e quello di Montedison, Eugenio Cefis. Tutte ipotesi che potrebbero avere appena un fondamento di verità o essere decisamente plausibili, come quella secondo la quale Pelosi non era solo, avanzata sin dai primi giorni da Oriana Fallaci, la scrittrice e giornalista sua amica. Ipotesi che oggi, dopo mezzo secolo, appaiono comunque destinate a restare tali.
Escluso il personaggio del “poeta maledetto” noto al grande pubblico, Pasolini resta tra gli autori meno letti e “guardati” come regista, sebbene Harold Bloom, l’autore del Canone occidentale, considerato la bibbia della critica moderna, lo abbia compreso tra i nomi che del Canone fanno parte. PPP non è stato mai interessato alla coerenza. Sembrava perseguire la contraddizione come metodo di lavoro. Bastava che qualcuno gli attribuisse una finalità, una coerenza progettuale, che immediatamente prendeva posizione per sconfessare quel giudizio, per positivo o benevolo che fosse. Non riconosceva amicizie, trascorsi personali, finalità. Era come ossessionato dal qualunquismo, dall’omologazione, dal conformismo, dal consumismo. Comunista per formazione, ateo, ebbe a dirsi cristiano, come nel solco di un pensiero crociano che però non sembrava appartenergli. Detestava i conservatori e la destra italiana, che non era mai riuscita a liberarsi del germe fascista, ma poi osteggiava progressisti e anticonformisti. Negli anni della diffusione iniziale della cultura hippy aborriva i “capelloni”; mi chiedo quale sarebbe stato il suo atteggiamento di fronte all’odierno dilagare di un fenomeno socialmente pervasivo e trasversale come il tatuaggio. Di famiglia borghese egli stesso, reputava che la borghesia fosse il suo peggior nemico; al punto che di fronte alla contestazione del Sessantotto, che vedeva in opposizione fisica celerini e studenti contestatori, prese posizione a favore dei primi, contro i giovani che alla fine – benché di segno opposto – non erano che la copia omologabile dei loro padri. Nell’ultima fase della vita cominciò a collaborare con il Corriere della Sera, il giornale della borghesia per eccellenza, in articoli noti come gli Scritti corsari.
Aveva preso posizione contro l’aborto, non volendone vedere una tappa fondamentale nell’emancipazione della donna e in più occasioni si dichiarò contrario, lui omosessuale dichiarato ma non militante, al “coito di coppia” eterosessuale, che considerava una espressione “clerico fascista”, dove tutto è “precostituito e conformistico”. Peraltro il femminismo gli era estraneo quanto sperimentalismi e avanguardie. Celebri, a questo riguardo, le sue polemiche con esponenti del Gruppo ’63, Edoardo Sanguineti fra tutti. Pasolini fu amico di Giorgio Caproni, di Attilio Bertolucci, di Giuseppe Ungaretti, di Sandro Penna, ma anche osteggiato da alcuni tra i maggiori critici di quegli anni, Emilio Cecchi, Alberto Asor Rosa, Carlo Salinari. Inizialmente stimato da Eugenio Montale, dopo ruppe anche con lui. Di Alberto Moravia fu uno stretto sodale anche in numerosi viaggi, sia con la moglie Elsa Morante sia con la successiva compagna Dacia Maraini; nonostante ciò, i rapporti tra Moravia e Pasolini si incrinarono, almeno per un periodo, dopo un’ironica critica di Moravia che lo aveva accusato di “idealismo cattolico”.
Alla sua morte, però, Moravia pronunciò un epicedio di affettuosa partecipazione. Con motivazioni diverse, ma sempre riconducibili alla sua omosessualità, Pasolini ebbe decine tra denunce, querele e processi, conclusisi quasi tutti con assoluzioni, prescrizioni o superati da amnistie. Diversi anche i sequestri delle sue opere filmiche per oltraggio al pudore e, almeno in un caso, quello del film La ricotta, per vilipendio alla religione di stato. Ciò gli costò una condanna a quattro mesi di prigione, poi cancellata in appello. Il più grande poeta in musica che abbia avuto l’Italia, Fabrizio De André, a Pasolini dedicò Una storia sbagliata, una delle sue canzoni più belle. Ma è un semplice, unico verso di un altro brano di Faber, tratto rielaborando un poema del colombiano Álvaro Mutis e intitolato Smisurata preghiera, che sembra riassumere la controversa, contraddittoria e tragica figura di Pasolini: “In direzione ostinata e contraria”. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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