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“Ho visto Nina volare”. Giovanna, la protagonista della canzone, racconta qui un Fabrizio De André inedito 

di Italia Libera   
“Ho visto Nina volare”. Giovanna, la protagonista della canzone, racconta qui un Fabrizio De Andr...

In questa intervista parla Giovanna Manfieri, detta “Nina”. È la Nina che ha ispirato una delle più famose canzoni di Fabrizio De André, “Ho visto Nina volare”. Nina era l’amica del cuore di Fabrizio (lei lo chiamava “Bicio”) quando erano bambini. La casa era la “Cascina dell’Orto”, il papà di Faber era un professore di un istituto superiore, nelle sue classi c’erano dei ragazzi ebrei e fece di tutto per salvarli. Qui ricorda l’amicizia, ma anche le atmosfere del dopoguerra, e un’improvvisa visita del cantautore che, in prossimità della sua fine, ha voluto rivedere lei e le altre persone che avevano lasciato un segno nella sua vita

◆ L’intervista di FABIO BALOCCO con NINA MANFIERI

► “Anime salve” è l’ultimo album di Fabrizio De André. Esce nel 1996 ed è frutto della collaborazione con Ivano Fossati. In esso è contenuta una canzone particolare “Ho visto Nina volare”, particolare perché ha un chiaro riferimento ad uno specifico periodo della vita del cantautore. Quella Nina era un’amica di Fabrizio, ed oggi l’ho intervistata, per ricordare Fabrizio e quei tempi. Lei si chiama Giovanna (Nina) Manfieri.

— Lei è nata e cresciuta in un comune dell’astigiano, Revignano d’Asti, nata nel 1940, se non erro. Come venne a conoscere Fabrizio De André?

«Sì, sono nata a Revignano d’Asti il 13 marzo 1940 e ho sempre vissuto qui a Revignano. Ho conosciuto Fabrizio, di cui ero coetanea, perché nel 1942 suo papà aveva acquistato una casa vicino a dove abitavo io con la mia famiglia. La casa era chiamata “Cascina dell’Orto”. Il papà di Fabrizio era un professore di un istituto superiore, nelle sue classi c’erano dei ragazzi ebrei, e lui fece di tutto per salvarli dalle deportazioni. Poi lui stesso divenne ricercato per aver coperto questi alunni e si rifugiò con la famiglia in una casa vicino a quella che aveva acquistato, perché quest’altra casa aveva dei sotterranei che potevano fornire rifugio, se si veniva cercati. I fascisti venivano in effetti spesso a cercarlo, ma noi e il padrone della casa dov’era rifugiato rispondevamo che non lo conoscevamo. Fu allora che conobbi Fabrizio, ed anche suo fratello Mauro. Poi, terminata la guerra, la famiglia di Fabrizio tornò stabilmente a Genova, ma continuavano a venire qui a Revignano nei fine settimana, nelle feste, e d’estate, così io e Fabrizio avevamo modo di frequentarci e giocare insieme: si può dire che una parte della nostra vita di bambini l’abbiamo vissuta insieme. Questo fino al 1950, quando il papà vendette la casa. Il mio rapporto con Fabrizio fu molto intenso: i rapporti infantili, sa, non si dimenticano».

— Del resto, dal testo della canzone sembrerebbe che Fabrizio fosse allora un po’ invaghito di lei, che ci fosse un amore infantile tra voi.

«In effetti così sembra, anche se le devo dire che quando giocavamo ero io che lo spingevo sull’altalena e non lui che spingeva me. Ma, a parte questo, quando talvolta bisticciavamo, lui mi diceva in dialetto piemontese “ricordati Nina, s’am fai anrabié at spus pi nen!” “ricordati, Nina, che se mi fai arrabbiare, io non ti sposo più”. Chissà, cosa c’era dentro quella sua testolina allora. Furono anni molto belli e ricordo anche il giorno della Liberazione, che avevamo cinque anni e lui era qui. Ricordo che sentivamo le campane suonare e non capivamo cosa fosse, poi tornò mio nonno dai prati e ci abbracciò, me e mia nonna, e disse “Nina, è finita”. Fabrizio e suo fratello erano in casa con le nonne e ci riunimmo tutti per fare festa».

— Veniamo a dopo. Quando il papà vendette la casa vi perdeste di vista.

«Sì, non ci vedemmo più se non molti anni dopo. Solo un giorno, quando avevamo quattordici anni, ci incontrammo di nuovo. Lui era andato dalla nonna paterna che abitava ad Asti, da lì aveva preso il treno ed era sceso alla stazione di San Damiano, dove ci siamo incontrati per caso. Allora io gli chiedo “ma Bicio (Bicio era il suo soprannome, n.d.a.) cosa ci fai qui?” e lui “sono venuto a rivedere la casa”. Ecco, andò a rivedere la casa che li aveva ospitati e ricordo anche che perse il portafoglio, salendo le scale ed io lo raccolsi e glielo restituii. Ma quella volta andava di corsa, doveva tornare ad Asti. Dopo non ci siamo più rivisti fino al 1997».

— E nel frattempo, un anno prima, nel 1996, le dedicò “Ho visto Nina volare”. Come venne a conoscenza del fatto che le aveva dedicato la canzone?

«Mio figlio più giovane era un appassionato di De André e un giorno a mezzogiornovenne a casa da lavorare e mi disse che probabilmente Fabrizio mi aveva dedicato una canzone. Io risposi “ma figurati”. Ma poi la ascoltammo e mi dovetti ricredere. E vidi anche il videoclip in televisione: c’erano due bambini, maschio e femmina, una bicicletta, una casa di campagna. Non ebbi più dubbi, quella canzone era per me».

— Immagino l’emozione che provò allora.

«Sì, fu un’emozione intensa, ma ancor di più l’anno dopo, quando venne a trovarmi. Era un pomeriggio d’estate e mio cognato lo vide al cancello, e lui chiedeva di me, se abitavo sempre lì e se poteva salutarmi. Io ero in casa che facevo i peperoni in composta e mio marito mi disse che c’era Fabrizio che era venuto a trovarmi. Io non ci volevo credere, e invece eccolo arrivare. E fu davvero una grossa emozione per entrambi. Mi chiese di vedere quella che era stata casa sua e, le dico che era emozionatissimo, perché la casa era stata lasciata come quando loro se ne erano andati. In bagno c’era ancora la vasca di metallo con i piedi, che quando la vide si commosse. Disse “io mi sento stordito a vedere la casa come allora”. Poi ricordò “in questa casa ho imparato a giocare a scopa con Emilio”. Emilio era il mezzadro, che era molto affezionato a lui. Andammo anche a vedere quella che chiamavamo la fontana delle salamandre, anche se le salamandre oramai non c’erano più, per via dell’inquinamento. Insomma, stemmo a chiacchierare tutto il pomeriggio e ricordo che mi chiese anche se mi ricordavo come si chiamava l’asinella che nel Natale del 1944 gli avevano regalato. “Si chiamava Lidia” risposi. E lui “ma allora non ti sei dimenticata niente”».

— Era da solo quando vi siete incontrati?

«Sì, era da solo. C’era una macchina che lo aspettava. Ma sapevo che lui non guidava. Dori non sapeva che lui fosse venuto. Io e lei ci conoscemmo solo nel 2004 quando inaugurarono la piazza intitolata a Fabrizio qui ad Asti».

— E la casa dei De André oggi com’è?

«Oggi c’è la sorella di mio marito. La casa lei l’ha fatta ristrutturare, ma solo dove c’erano il fienile e la stalla. Il resto l’ha lasciato com’era quando Fabrizio venne a trovarmi. E c’è ancora la vasca di metallo».

— Un segno di ricordo e di rispetto.

«Sì. Devo ricordare anche che, quando ci siamo salutati nel cortile, ho sentito come un presentimento, che quella era l’ultima volta che ci vedevamo. Come se fosse un commiato. In seguito seppi che era andato a trovare diverse persone che avevano segnato la sua vita, come se sentisse che se ne doveva andare».

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