Guerra e crisi economica: l’occupazione femminile è quella che soffre di più

L’indagine svolta dal Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, su incarico del ministero dell’Economia e delle Finanze, rivela che le discriminazioni di genere sono aumentate e che il prezzo più alto della crisi lo stanno pagando le donne: disoccupate, sottopagate, con retribuzioni più basse, spesso vittime di ricatti, costrette ad accettare lavoro in nero o a lasciare il posto quando sono in attesa di un figlio. E con la guerra la situazione peggiora. Nel determinare la fragilità del lavoro femminile, infatti, alle cause storiche si aggiungono quelle contingenti: molte donne lavorano nel turismo, settore messo in ginocchio dalla pandemia e oggi in crisi a causa del conflitto nel cuore dell’Europa
L’articolo di ANNA MARIA SERSALE
LO SCOPPIO DELLA guerra ha gelato i timidi segnali di ripresa del post pandemia. In Italia, paese del precariato e del part-time involontario, l’occupazione femminile è quella che soffre di più. Le disuguaglianze aggravate durante il Covid ora stanno aumentando per il conflitto nel cuore dell’Europa. Da noi una donna su due non ha un lavoro retribuito. Il dato peggiore dal 2013. L’indagine, svolta dal Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, su incarico del ministero dell’Economia e delle Finanze, alla fine dell’anno scorso rivela che le discriminazioni di genere sono aumentate e che il prezzo più alto della crisi lo stanno pagando le donne, che dopo cinquant’anni di battaglie femministe sono ancora le più penalizzate. Disoccupate, sottopagate, hanno meno tutele. E ora con la guerra la situazione peggiora. La quota maggiore di precariato tocca a loro. Sono spesso vittima di ricatti, costrette ad accettare lavoro in nero o falsi part-time; ma anche ruoli ridimensionati con retribuzioni più basse o costrette a lasciare il posto quando sono in attesa di un figlio. Nel determinare la fragilità del lavoro femminile alle cause storiche si aggiungono quelle contingenti, legate a crisi settoriali.
Molte donne lavorano nel turismo, settore messo in ginocchio dalla pandemia, con più di quattromila imprese che hanno chiuso. Un mondo su cui ora pesa l’incognita delle disdette, che in vista di Pasqua hanno già fatto piangere centinaia di albergatori e ristoratori. «Il settore turistico ora è in crisi per il conflitto», sostiene Ivana Veronese, una laurea in giurisprudenza e una in consulente del lavoro, segretaria confederale Uil con deleghe su politiche lavorative, pari opportunità, immigrazione, mezzogiorno, regioni, fondi europei e formazione. «Se non cambia lo scenario sarà il turismo uno dei settori che più di ogni altro pagherà questa guerra. Per questo le donne, che in gran parte lavorano nei servizi, saranno le più colpite.» È ancora aperta la ferita inferta dal Covid nel 2020 quando il tasso di occupazione femminile subì un crollo, con una perdita di 312.000 posti “rosa”, pari al 70% del totale dei 444.000 andati in fumo. L’anno scorso era iniziata una timida ripresa, ma ben poco di quei posti è stato recuperato. E ora?
«Diciamo che con la guerra ora piove sul bagnato, da noi – sottolinea Veronese della Uil – una donna su due non lavora! Siamo drammaticamente indietro rispetto al resto d’Europa. Se poi scendiamo al Sud, quelle che restano a casa sono due donne su tre. Il Pnrr ora deve ripianare le disuguaglianze, è previsto dagli obiettivi, dovrà occuparsi in particolare di donne e giovani. Non puoi offrire solo contratti precari, devi dare lavori veri. Invece, nel 2021 la “ripresa” è stata tutta sui contrattini precari. Colpa della miopia delle aziende. La stabilità, infatti, non viene vista come un investimento che porta benefici, sviluppo e maggiore produttività, ma ci si concentra sullo spendere meno.» Però è stato approvato un decreto-legge che obbliga gli operatori economici a destinare ai giovani under 36 e alle donne almeno il 30% dell’occupazione aggiuntiva creata con l’assegnazione dei fondi di Bruxelles e chiede di realizzare «progressi significativi nell’attuazione della parità di genere.» Il Pil cala, l’inflazione sale e i prezzi delle materie prime sono alle stelle (aumenti del 20/30%, con punte del 50%), le imprese italiane sentono che il rischio di recessione è reale. Solo nelle prossime settimane capiremo meglio quanto siano duri i colpi di questa guerra folle.
Per ora gli spiragli per un possibile negoziato di pace non rassicurano il mondo dell’economia, che vive un clima di crescente incertezza: la ritirata delle truppe russe è solo una mezza ritirata; Putin continua a bombardare e non mollerà la presa tanto facilmente; mentre tra gli Stati Uniti, che vogliono mettere all’angolo lo zar, e l’Europa, che vuole soprattutto liberare Kiev, gli interessi si stanno divaricando. La guerra rischia di trasformarsi (chissà per quanto tempo) in un conflitto a “bassa intensità”, con effetti socio-economici sempre più negativi. Le prime ad accorgersene ancora una volta sono state le donne, perché sono le prime ad essere colpite quando c’è la crisi. Se al momento una donna su due non lavora, guardando all’età si scopre che la percentuale delle giovani a casa è del 33,5%. A questo si aggiunge il tasso di Neet (ossia delle giovani che non studiano, non lavorano e non seguono percorsi di formazione) cresciuto l’anno scorso dal 27,9% al 29,3%, contro una media dell’Unione europea del 18%. In aumento anche il numero di donne costrette al part-time involontario, 61,2%, tasso che in Europa è del 21,6%, circa tre volte in meno. Ma ora, stando al Pnrr, le nuove leggi dovranno avere come base una prospettiva di genere (a livello locale ci sono già alcune esperienze significative). E c’è una scadenza: entro il 2025 l’Italia deve raggiungere la parità.
Per ora siamo in fondo alla classifica. L’Italia risulta essere uno degli ultimi tra i 27 Paesi europei nel sanare i divari di genere nel mondo del lavoro. Dunque, le donne sono quelle che pagano il prezzo più alto della crisi. Lo ha ricordato di recente anche Susanna Camusso, responsabile delle Politiche di genere della Cgil, tra i coordinatori della campagna “Half of it – Donne per la salvezza”. Ora anche il problema del divario salariale tra uomo e donna si fa più acuto. Ma il sindacato continua la battaglia per l’equiparazione. «La ministra per le pari opportunità, Maria Elena Bonetti, al tavolo con i sindacati ha presentato una nuova normativa – osserva ancora Veronese della Uil – È prevista da parte delle imprese l’adozione della certificazione di genere, che sarà sostenuta anche da incentivi di natura fiscale. L’obiettivo è che si arrivi a un 30% di assunzioni di donne e giovani. Per partecipare ai bandi, per esempio, le imprese dovranno dimostrare di non avere fatto discriminazioni di genere. Tuttavia, siccome sono previste una serie di eccezioni, troppe, si rischia di ritrovarsi punto e a capo.»
E rischiamo di trovarci punto e a capo anche per altri problemi da bollino rosso. Se la metà delle donne sono disoccupate ciò è dovuto anche all’impossibile conciliazione famiglia-lavoro, mancando asili nido e infrastrutture sociali. Come è noto, in Italia la ripartizione del tempo dedicato a cura e lavori domestici è fortemente sbilanciato tra i sessi, con l’81% di donne che vi si dedica tutti i giorni contro il 20% degli uomini. Il peso del lavoro di cura dei figli, delle persone anziane non autosufficienti e delle persone con gravi disabilità, grava sulle spalle delle donne. Da noi la politica a parole riconosce i diritti, ma poi non li rende attuabili. Nonostante tante conquiste sociali, in Italia pesa un grave ritardo culturale per non esserci ancora liberati del patriarcato. Inoltre, non abbiamo investito nei servizi territoriali, a cominciare da quelli per l’infanzia: non siamo in grado di dare un posto al nido per ogni bambino zero/tre anni (solo 1 su 10 trova spazio) così le attività di cura della famiglia e degli anziani per il 70 per cento restano sulle spalle delle donne. Eppure, il rilancio dell’occupazione femminile, il superamento del divario retributivo e la riduzione delle disuguaglianze tra uomini e donne hanno importanza strategica, farebbero crescere il Pil del Paese. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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