Gli impatti climatici della vittoria di Trump: cresceranno le emissioni ma la transizione proseguirà
La Conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la Cop29, comincerà la settimana prossima a Baku, in Azerbaigian. Improbabile che gli Usa annuncino già cambiamenti di rotta. Se il nuovo Presidente (che si insedierà a fine gennaio) confermerà i propositi della sua campagna elettorale, gli Stati Uniti sarebbero esonerati dalla definizione di nuovi obiettivi per il 2035 prevista per l’inizio del prossimo anno e non parteciperanno ai finanziamenti per aiutare le nazioni in via di sviluppo. Se rinunceranno agli impegni internazionali, secondo Carbon Brief, gli Usa produrrebbero un incremento delle emissioni di gas climalteranti pari a 4 miliardi di tonnellate entro il 2030. Pochi paesi probabilmente seguirebbero gli Stati Uniti in questo abbandono (come già avvenne dopo l’uscita dagli accordi nel 2017). E assisteremo con ogni probabilità a un trasferimento anche formale della leadership climatica a Pechino
◆ L’analisi di GIANNI SILVESTRINI, direttore scientifico Kyoto Club, presidente Exalto Energy&Innovation
► Nelle ultime settimane, il futuro presidente Usa aveva affermato che il cambiamento climatico è «una delle più grandi truffe di tutti i tempi», aggiungendo che il pianeta «in realtà è diventato ultimamente un po’ più freddo» e che l’energia eolica è «una stronzata, è orribile». Dobbiamo dunque aspettarci un secondo ritiro dall’accordo di Parigi che avrebbe diverse conseguenze, per esempio sul finanziamento dell’azione per il clima nei paesi più poveri, argomento caldo della Cop29 che comincerà la settimana prossima a Baku in Azerbaigian, dall’11 al 22 novembre 2024. Gli Stati Uniti, inoltre, sarebbero esonerati dalla definizione di nuovi obiettivi per il 2035 prevista per l’inizio del prossimo anno e dalla raccolta di miliardi di dollari per aiutare le nazioni in via di sviluppo. Più complessa l’ipotesi di un ritiro dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici del 1992, che aprirebbe un confronto diplomatico che potrebbe durare alcuni anni.
Va comunque detto che pochi paesi probabilmente seguirebbero gli Stati Uniti in questo abbandono. Ricordiamo che, dopo la dichiarazione di Trump del 2017, nessuno ha seguito il suo esempio. Peraltro, sono in corso colloqui per mantenere comunque viva la cooperazione globale. Rappresentanti della California, ad esempio, si sono incontrati con funzionari cinesi per discutere la continuazione della collaborazione sul clima a livello subnazionale. Secondo Carbon Brief, questa scelta avrebbe ripercussioni sulle politiche Usa, con un incremento delle emissioni di gas climalteranti pari a 4 miliardi di tonnellate entro il 2030. E, secondo Michael Mann (scienziato di punta del clima), gli Stati Uniti sono ormai una «democrazia fallita» e «rappresentano una grave minaccia per il pianeta». Ma, la sensazione è che la transizione avviata potrà solo rallentare.
«Non importa quello che Trump può dire, il passaggio all’energia pulita è inarrestabile e il nostro Paese non tornerà indietro», ha affermato Gina McCarthy, ex consigliere sul clima di Biden e co-presidente della coalizione “America Is All In” di Stati e città impegnati sul fronte climatico. Una posizione condivisa da Dan Lashof, direttore del World Resources Institute: «Il presidente Trump dovrà affrontare un muro di opposizione bipartisan se tenterà di eliminare gli incentivi per l’energia pulita». Solo qualche giorno prima delle elezioni, BNEF prevedeva oltre 950 GW di nuova potenza solare ed eolica negli Usa nel periodo 2024-2035. Oltre a ulteriori 231 GW/925 GWh di capacità di accumulo. Un totale, improbabile, annullamento degli incentivi dell’Inflation Reduction Act rallenterebbe del 17% la crescita delle rinnovabili al 2035 che però continuerebbero la loro avanzata grazie alla loro competitività.
E sul fronte del petrolio, entusiasticamente promosso dal trumpiano “Drill baby drill”, gli scenari sono molto incerti visto che ci avviciniamo ad una fase in cui si raggiungerà il picco della domanda di greggio. Secondo gli analisti di Standard&Poors «si prevede che il calo dei prezzi del petrolio rallenterà la crescita onshore degli Stati Uniti nel 2025 e porterà a un calo nel 2026».
C’è da aggiungere che l’abbandono americano dell’accordo di Parigi comporterebbe con ogni probabilità un trasferimento anche formale della leadership climatica a Pechino, oggi in prima linea nella transizione verde. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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