Gli attacchi alle Nazioni Unite e i crimini di Netanyahu. Perché gli israeliani non si ribellano?
La sfacciata ostinazione con cui Bibi sta sfigurando l’immagine del suo Paese non può più fare velo alla sostanziale inerzia della società israeliana nel subire una Nemesi che li sta trasformando da Capro Espiatorio in uno dei tanti aguzzini della Storia. Forse la maggioranza degli israeliani, anche senza essere invasati religiosi, abbagliati dallo strapotere tecnologico e d’intelligence esibito nella vicenda dei cerca-persone esplosivi, preferiscono chiudere gli occhi davanti alle deliberate brutalità commesse dai loro militari a Gaza, in Cisgiordania e in Libano. Ma cosa fanno oggi gli ebrei della Diaspora? Soprattutto gli ebrei europei, che hanno una lunga tradizione di laicità culturale, dovrebbero trovare il coraggio di prendere una posizione molto più netta e dirlo apertamente, magari anche scendendo in strada, senza lasciare tutto il peso del dissenso ad alcuni loro intellettuali
◆ Il commento di MAURIZIO MENICUCCI
► Gli attacchi ai Caschi Blu dopo ripetute minacce, segno di una meditata strategia mirata, per giudizio unanime, a sgombrare il campo dei possibili testimoni di quel che di contrario a ogni diritto umanitario Israele si accinge a combinare laggiù, dicono che il capo del governo israeliano, questo corrotto autocrate, non meno di altri meritevole del bando internazionale, non intende fermarsi davanti a nulla e a nessuno. Ma ora che la barbarie della politica d’Israele ha superato il livello di guardia, spingendolo a dichiarare guerra al mondo non più solo a parole, perché questo sono, a tutti gli effetti, i colpi sulle postazioni Unifil, è il caso di chiedersi se per l’Occidente non sia necessario cambiare atteggiamento. Se, guardando con occhio critico all’ambiguo confine tra senso di colpa, tolleranza e complicità che dai tempi di Theodor Herzl, fondatore del moderno sionismo, ha sempre fatto da sfondo ai nostri rapporti con il nazionalismo ebraico, non sia arrivato il momento di dire basta alle ipocrite cautele linguistiche con cui trattiamo la nuova irresponsabilità di Tel Aviv. Se, ad esempio, non sia il caso di smetterla di sostenere che “Netanyahu è una cosa e la popolazione un’altra”, o che l’Idf non è d’accordo con il conflitto perché 150 riservisti inorriditi minacciano di ammutinarsi.
La sfacciata ostinazione con cui Bibi sta sfigurando l’immagine del suo Paese pur di rimandare l’appuntamento con i tribunali per le sue malefatte passate, non può più fare velo alla sostanziale inerzia della società israeliana nel subire una Nemesi che li sta trasformando da Capro Espiatorio in uno dei tanti aguzzini della Storia. Se Israele è davvero un paese democratico, come pretende di essere, scagliando su chi ne dubita l’anatema, per causa sua sempre più vuoto, di antisemitismo, allora i ‘no’ alla politica criminale di Bibi dovrebbero fermarlo. Se non ci riescono, è perché i suoi oppositori possono anche far rumore e colore in piazza per mesi, ma restano comunque irrilevanti. In realtà la maggioranza degli israeliani, anche senza essere invasati religiosi, e forse abbagliati dallo strapotere tecnologico e d’intelligence esibito nella vicenda dei cerca-persone esplosivi, preferiscono chiudere gli occhi davanti alle deliberate brutalità commesse dai loro militari a Gaza, in Cisgiordania e in Libano.
E lo fanno ben sapendo che non si tratta di una spropositata ritorsione contro i civili per la strage perpetrata dai terroristi di Hamas, male grave eppur minore che il callido Bibi vorrebbe far parere. Si tratta, invece, della volontà, confermata dall’assoluta indifferenza per la sorte degli ostaggi, quelli israeliani e quelli palestinesi, in questo caso un’intera popolazione colpevolizzata e presa di mira, con oltre 42 mila morti, di portare a termine un piano a lungo accarezzato.
Un progetto adesso realizzabile, approfittando con cinismo della crisi internazionale, tra il vuoto elettorale americano, la guerra in Ucraina, il confronto sempre più profondo tra Occidente e Asia, e l’Europa costretta a balbettare più del solito da Orbán e dai suoi accoliti sovranisti. Il suo obiettivo, come d’altronde hanno vantato con orgoglio gli stessi Ben-Gvir e Smodrich, entrambi ministri guerrafondai del governo Netanyahu, è annientare non solo Hamas, ma tutti i palestinesi come popolo, allontanandoli per sempre da Gaza e dalla Cisgiordania, e già che ci sono, con la scusa di colpire a morte Hezbollah, liberare anche parte del Paese dei Cedri dai libanesi che, non meno legittimamente dei palestinesi, ci abitano da millenni.
Sia chiaro: confondere ebrei e Israele; attribuire ai primi i misfatti di una nazione di cui non sono cittadini; supporre che siano sempre d’accordo, tutti sionisti, tutti religiosi e convinti della risibile pretesa che la Bibbia sia un testo di Storia, un destino che impone di riunificare dentro un solo confine, territoriale e confessionale, i mitici Regni di Giuda e di Israele, la famigerata “terra senza un popolo per un popolo senza terra”: tutto questo è una grave dimostrazione di ignoranza da parte di chi vorrebbe difendere le parti più deboli e le ragioni dell’umanità e della logica, in questo conflitto apparentemente privo di logica e ragioni. Ed è anche probabile che tale atteggiamento, che induce a considerare tutti gli ebrei come se fossero israeliani, presenti anche i tratti del solito, inossidabile antisemitismo.
Però, a questo punto, per chiarire le cose, sarebbe davvero auspicabile che tutti gli ebrei della diaspora che non concordano con lo stolto comportamento di Tel Aviv, e in particolare quelli europei che hanno una lunga tradizione di laicità culturale, trovassero il coraggio di prendere una posizione molto più netta e lo dicessero apertamente, magari anche scendendo in strada, senza lasciare tutto il peso del dissenso ad alcuni loro intellettuali. Perché una nazione può anche dichiararsi eletta da Geova, ma questo non esclude il rischio che anche Geova, come ogni Dio, possa rendere dementi coloro che vuole disperdere. © RIPRODUZIONE RISERVATA