Giustizia in guerra e disparità di forze: dialogo tra Ateniesi e Melii, anzi no, tra Russi e Ucraini

Giustizia in guerra e disparità di forze: dialogo tra Ateniesi e Melii, anzi no, tra Russi e Ucraini

Nel 416 avanti Cristo, racconta Tucidide nella “Guerra del Peloponneso”, l’Orso russo erano gli Ateniesi che posero un ultimatum agli abitanti dell’isola di Melo, nelle Cicladi. Un diktat perentorio: o assoggettarsi a loro, o perire. Il rifiuto dei Melii a questa imposizione causò la distruzione della città, l’uccisione di tutti gli uomini e la deportazione di donne e bambini, come schiavi. Senza accampare pretesti, Tucidide espresse una totale condanna per l’operato di Atene e predisse che una simile macchia non sarebbe mai stata lavata e dimenticata. «Per noi che siamo ancora liberi – rispondono i Melii alle minacce arroganti degli Ateniesi – sarebbe grande viltà e debolezza il non affrontare ogni vicissitudine prima di essere schiavi». E noi, come già Tucidide, siamo dalla parte dei Melii e degli Ucraini

Il racconto di ARTURO GUASTELLA, nostro inviato nella Magna Grecia
SE NEGLI ULTIMI due anni, i nostri, i miei sogni, sono stati agitati da mostriciattoli virali, che evocavano incubi di tubi che fuoriuscivano da naso e gola e di camion militari che si dirigevano verso pire e avelli fuori la cinta muraria, con sacerdoti in camice bianco che officiavano lamentevoli “De Profundis”, ora il mio, il vostro incubo, sono case squarciate da bombe e missili, corpi abbandonati tra le macerie, processioni dolenti di profughi, cacciati dalla loro terra, dagli affetti e dalla loro storia. Il novello Cambise, il tiranno, il satrapo dal faccino slavo e slavato, non è, però, solo. I suoi consiglieri sono tutti li, riuniti ad un tavolo, dove ci sono persino hostess biondissime, a supporto coreografico, mentre agitano lo spettro di ritorsioni apocalittiche, come se il loro popolo fosse al sicuro dal “fungo devastante” e non già destinato all’annientamento. Magari con il viatico dell’ineffabile sacerdote Kirill.

Così, per sfuggire a queste sensazioni di impotenza e di catastrofe imminente, ho forzato, come di consueto il chronos, il tempo, e mi sono rifugiato in Magna Grecia. Invano, ahimè, perché anche qui, mi sono ritrovato in piena guerra. La Guerra del Peloponneso, del 415 avanti Cristo, quella tra Sparta e Atene, non si era, infatti, limitata alla Grecia continentale, ma il clangore delle armi aveva allargato il suo perimetro, fin qui, nel sud della penisola italiota. A raccontarmi il tutto, naturalmente uno storico di gran classe, quel Tucidide, che pure essendo ateniese e direttamente interessato alla guerra con funzioni di altissimo ufficiale, l’aveva narrata con ammirabile obiettività. «Qui, nella Megale Hellas, come già in Grecia — è il racconto dello storiografo forse più famoso dell’antichità — Atene e Sparta, avevano i loro alleati». Quelli con Atene, la cosiddetta Lega di Delo, Segesta, Katane, Akragas, Naxos, Thurii, Metaponto, gli Etruschi, mentre i Messapi si erano dichiarati neutrali. Con Sparta, invece, Himera, Camarina, Selinunte, Gela e, naturalmente, la più potente colonia corinzia in Sicilia, Siracusa.

Per portare la guerra anche in Magna Grecia, una poderosa flotta ateniese, con una forza di trentamila uomini, 6400 truppe da sbarco (una sorta di marines ante litteram) e 134 triremi, salpò dal porto del Pireo, nel giugno del 415 a.C., diretta a Taranto, tappa obbligata per tutti gli approdi della Magna Grecia, prima di portare la guerra a Siracusa e agli alleati degli Spartani. «Tuttavia — interviene Strabone, sempre al mio fianco in questo girovagare — la tua polis, Taranto, pur avendo un’articolazione statuale democratica, sul modello di quella ateniese di Clistene, non poteva dimenticare le sue origini spartane». «Anche se — precisa Tucidide — la democrazia tarantina, instaurata nel primo quarto del quinto secolo avanti Cristo, mostrò da subito peculiarità del tutto differenti dalla città di Pericle, in quanto quest’ultima, Atene, aveva cominciato a coltivare mire imperialistiche, con l’imposizione di pesantissimi tributi ai suoi stessi alleati, mentre a Taranto…». «In questa polis,  come ci fa sapere nel VI libro della Politica, Aristotele — interviene a sua volta lo storico Hippys di Rhegion — le leggi si assicurano la benevolenza della moltitudine, rendendo comuni i beni ai poveri per il loro uso e diviso la magistratura in due classi, una elettiva e l’altra sorteggiata». «Quest’ultima — precisa lo Stagirita —, per garantire anche al popolo una parte dell’amministrazione della giustizia, mentre quella elettiva per assicurare che gli affari pubblici vengano ben condotti».

Così, i tarantini negarono alla flotta ateniese l’approdo nel suo porto, e allo stesso modo si comportarono i Locresi. «Una Costituzione democratica — prende a sua volta la parola nientemeno che il Padre della Storia, Erodoto — che, forse ebbe origine dalla dolorosissima sconfitta dei Tarantini da parte dei Messapi, con la più grande strage di Greci tra tutte quelle di cui si è a conoscenza, e che contò qualcosa come tremila morti soltanto fra gli alleati di Rhegion, e forse molti di più tra quelli della tua polis. Con il quasi totale annientamento degli aristocratici, per cui si fu costretti ad aprire anche ad altri censi». «Tuttavia — fa sentire la sua voce, e stavolta non con le sue rime alate, il poeta tarantino Leonida — i miei concittadini si presero più di una rivincita con i Messapi e i Peuceti, come ho potuto io stesso ammirare a Delfi, in una magnifica offerta votiva per la vittoria contro questi indigeni. Un gruppo votivo di splendide statue in bronzo di cavalli e di fanciulle prigioniere, opera del famoso scultore di Argo, Agelada». «E a proposito di Costituzioni esemplari — prendono la parola altri due storici magno greci, ambedue di Rhegion, come il loro collega, Glauco e Lico — qui da noi, nelle nostre poleis, il dettato costituzionale prevedeva tassativamente che ogni cittadino eletto alle massime cariche dello Stato dichiarasse i suoi beni, prima e dopo aver assolto ai suoi doveri di governo.

E se risultava che avesse sgarrato in qualche modo, sia per tornaconto personale, ma anche per insipienza, avrebbe dovuto rifondere di tasca propria il danno subito dalle casse pubbliche e gli sarebbe stata sbarrata per sempre l’elezione a qualunque carica pubblica». Proprio come da noi, insomma! In premessa, anche se sono stanco di parlare e di sognare di guerra, vi avevo accennato alla straordinaria obiettività di Tucidide, nel raccontare le vicende storiche, anche se mettono in cattiva luce la sua città, Atene. E quello del “Dialogo fra Ateniesi e Melii”, ovvero della giustizia in guerra, potremmo riportalo integralmente, cambiati semplicemente i nomi, con Russia e Ucraina. In quel caso, racconta Tucidide, l’Orso russo erano gli Ateniesi, che nel 416 avanti Cristo posero un ultimatum agli abitanti dell’isola di Melo, nelle Cicladi. Un diktat perentorio: o assoggettarsi a loro, o perire. Il rifiuto dei Melii a questa imposizione causò la distruzione della città, l’uccisione di tutti gli uomini e la deportazione di donne e bambini, come schiavi. Senza infingimenti e senza accampare pretesti, Tucidice esprime una totale condanna per l’operato di Atene, e prevede che una simile macchia non sarebbe mai stata lavata e dimenticata. Senza alcun dubbio, infatti, Tucidide si schiera dalla parte degli sventurati Melii, le cui ragioni del loro diritto alla neutralità tra Sparta e Atene erano fondati su criteri di giustizia condivisa, che comprendono il riconoscimento reciproco di autonomia tra le poleis. Mentre gli Ateniesi, proprio come ora il satrapo del Cremlino, negavano il valore di qualunque patto o regola che non tenesse nel debito conto della disparità di forze. «Ma, certo, per noi che siamo ancora liberi sarebbe grande viltà e debolezza il non affrontare ogni vicissitudine prima di essere schiavi», rispondono i Melii alle pretese e alle minacce arroganti degli Ateniesi. E noi, come già Tucidide, siamo dalla parte dei Melii e degli Ucraini. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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