Giornalismo con l’elmetto, interventismo e prezzo da pagare per togliere gli ucraini dalle mani di Putin

A differenza di quanto accade in altri paesi occidentali, i principali quotidiani italiani hanno scelto la strada della mobilitazione propagandistica e dimenticano i principi basilari della professione in nome della necessità di difendere l’aggredito, nascondendo o minimizzando tutti i fatti che potrebbero disturbare la loro narrazione a senso unico della guerra. Ogni giorno sui nostri quotidiani vengono presentate come certe le informazioni che arrivano dal governo e dai media ucraini, anche quando sono dubbie e impossibili da verificare. Le stesse informazioni, su giornali saldamente schierati con l’Occidente come “Le Monde” e il “New York Times”, sono presentate con le cautele del caso, e smentite quando necessario. Due esempi per tutti: la resa dei marinai ucraini sull’isola dei Serpenti e la “distruzione” fake del monumento di Babij Yar
Il commento di BATTISTA GARDONCINI
NON HO TROVATO in rete sondaggi aggiornati sulla fiducia degli italiani nei confronti dei giornalisti, ma sono convinto che la guerra in Ucraina non abbia modificato il trend negativo, ampiamente certificato negli anni dal crollo delle vendite di tutte le principali testate. E penso con tristezza che ce lo stiamo meritando. La Russia ha aggredito e l’Ucraina si difende, e questo non è in discussione. Ma a differenza di quanto accade in altri paesi occidentali, i principali quotidiani italiani hanno scelto la strada della mobilitazione propagandistica e dimenticano i principi basilari della professione in nome della necessità di difendere l’aggredito, nascondendo o minimizzando tutti i fatti che potrebbero disturbare la loro narrazione a senso unico della guerra. L’esempio più macroscopico lo ha offerto “La Stampa”, che ha pubblicato in prima pagina la foto di un massacro avvenuto nella città russofona di Donetsk, inserendola in un contesto che suggeriva al lettore ignaro una responsabilità dei russi. Un incidente che i commentatori più benevoli hanno attribuito alla sciatteria, ma è stata difesa come una precisa scelta editoriale dal direttore, in una delle sue tante comparsate in Tv.
Sorvoliamo sui commenti di Gramellini e degli altri tuttologi di professione, sempre gli stessi, sempre in perenne transumanza da uno studio televisivo all’altro, sempre così innamorati della forbita eleganza delle loro argomentazioni da dimenticare la sostanza. Limitiamoci alle notizie che dovrebbero essere la ragion d’essere del buon giornalismo. Ogni giorno sui nostri quotidiani vengono presentate come certe le informazioni che arrivano dal governo e dai media ucraini, anche quando sono dubbie e impossibili da verificare. Le stesse informazioni, su giornali saldamente schierati con l’Occidente come “Le Monde” e il “New York Times”, sono presentate con le cautele del caso, e smentite quando necessario. Due esempi per tutti. Quanti giornali italiani, dopo aver pubblicato in prima pagina la notizia della presunta morte dei tredici marinai ucraini dell’Isola dei Serpenti, che secondo Zelensky meritavano il titolo di eroi per il rifiuto di arrendersi ai russi, hanno dato rilievo alla notizia che in realtà erano 80 e si erano arresi senza colpo ferire? Eppure esiste anche un video della loro resa. E quanti giornali italiani ci hanno fatto sapere che il monumento di Babij Yar, a pochi chilometri da Kiev, non era stato distrutto dai bombardamenti russi come sostenevano gli ucraini? Quanti ci hanno spiegato che quel monumento fu eretto sul luogo della strage di trentamila ebrei e di circa settantamila prigionieri di guerra russi ad opera di tedeschi e dei loro collaborazionisti ucraini?
È sempre difficile, in un contesto di guerra, distinguere la verità dalla propaganda. Tutti i governi, non importa se buoni o cattivi, hanno fatto tesoro della lezione del Vietnam, dove gli americani lasciarono ai giornalisti la libertà di seguire le truppe sui campi di battaglia, e persero la guerra per la rivolta della loro opinione pubblica. Da allora i giornalisti “embedded” vedono solo quello che è consentito, e o vedono da una parte sola. È un limite sempre, ma in questo caso lo è anche di più, perché l’Occidente ha fatto una scelta di campo e sta combattendo una guerra non dichiarata contro la Russia di Putin. L’informazione è parte di questa guerra, come le sanzioni economiche e l’invio di armi agli ucraini. Basta saperlo, e avere ben chiari i rischi che si corrono.
In un paese dalla memoria corta come l’Italia ricordare quello che accadde più di cento anni fa può sembrare ingenuo, ma vale la pena di farlo. Nel 1914, quando scoppiò la prima guerra mondiale, l’Italia, pur facendo parte della Triplice Alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria, dichiarò la sua neutralità. In realtà la monarchia voleva entrare in guerra a fianco di Francia, Regno Unito e Russia, che avevano promesso di appoggiare le sue rivendicazioni territoriali nei confronti dell’Austria. Per spingere in guerra un Paese disorientato e poco convinto si fece un larghissimo uso della propaganda e sui giornali venne avviata una aggressiva campagna interventista, che vide tra protagonisti politici di destra e di sinistra — Mussolini era tra questi — e molti intellettuali. Chi si opponeva alla guerra fu accusato di non avere a cuore le sorti del paese e di sostenere le ambizioni egemoniche degli Imperi Centrali. Per loro venne addirittura inventato il termine spregiativo di “panciafichista”, sinistramente assonante con quello di “neneista” che va per la maggiore oggi. Il 26 aprile 1915 fu firmata una intesa con i nuovi alleati all’insaputa del parlamento, che aveva una maggioranza contraria. Un mese dopo, il 24 maggio, l’Italia entrò in una guerra che le costò 620 mila morti, 600 mila prigionieri e dispersi, e quasi un milione di feriti.
Che prezzo siamo disposti a pagare oggi?
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L’autore dirige Oltreilponte.org