Frammenti di guerra in casa: “Mamma i russi sono muy malos”, ma poi Yana fa fiorire la speranza

Il racconto di SILVIA PIETRANGELI, da Barcellona
Non lasciamo uccidere l’innocenza/Spagna
La sede del Consolato russo di Barcellona si trova in una zona residenziale della città che si arrampica sul dorso delle colline al lato del Tibidabo, in uno dei punti più belli da cui ammirare il panorama. La villa dei primi del Novecento che ospita la rappresentanza diplomatica russa è circondata da diverse scuole, e la mattina del 25 febbraio, il giorno dopo l’invasione dell’Ucraina, è stata presa di mira dai manifestanti contrari alla guerra, armati di bandiere giallo azzurre e di striscioni inneggianti la pace. Forse è per questo che Michele, come molti altri bambini delle scuole lì attorno, all’uscita dal “colegio”, sapeva già tutto sulla guerra.
«Mamma i russi sono muy malos, sono cattivissimi»,
mi ha detto lui con aria preoccupata. E io che mi ero preparata un discorso generico per spiegare a un bambino di sette anni che cosa fosse la guerra, ho dovuto rispondere a braccio:
«No, tesoro, la colpa non è dei russi, ma del loro Presidente, non sono tutti cattivi. Soprattutto i tuoi compagnetti non c’entrano nulla.»
«Neanche Yana?»
«Assolutamente.»
La preoccupazione, infatti, è quella che le bambine e i bambini russi della scuola possano essere in qualche modo presi di mira.
«Dimitri stava piangendo – ha aggiunto – perché i nonni sono in Ucraina.»
Dimitri gioca a calcio con Michele e il sabato successivo incontro la madre a una partita di pallone. Le chiedo se sta bene, se ha bisogno di qualcosa.
«Fortunatamente i miei genitori sono riusciti a scappare – mi dice mentre indica due signori anziani un po’ in disparte – ma mio fratello è dovuto restare a combattere.»
Osservo i nonni di Dimitri, sono appoggiati alle transenne, chiusi dentro i loro giubbotti pesanti da inverno continentale, immobili verso il campo da calcio, concentrati sul gioco. In realtà, a osservarli bene, si capisce che il loro sguardo non segue certo le sorti del pallone o le evoluzioni del nipote, non si affaccia sull’erba verde, ma fissa qualcosa che noi possiamo solo lontanamente immaginare, un abisso spaventoso che ha aggradito la loro vita.
«Sono scappati con un treno, hanno aspettato trentacinque ore al confine prima di poter entrare in Polonia. È stato un viaggio terribile.»
I nonni di Dimitri, che vivono in una città al centro dell’Ucraina, avevano programmato una breve vacanza in Spagna e la chiusura dello spazio aereo li ha colti di sorpresa.
«Ma secondo te – le domando – che cosa vogliono davvero i russi?»
«I russi? – sorride – molti russi siamo noi. I miei genitori sono russi, io parlo in russo a Dimitri, anche se mi considero ucraina perché ho vissuto e studiato lì.»
Mi spiega che a Mosca interessa soprattutto l’area del Donbass, la zona più ricca del paese, proprio quella dove il padre era emigrato per andare a lavorare in una miniera.
«La cosa più dolorosa – aggiunge – è chiamare i parenti e gli amici in Russia per raccontargli delle bombe, dei morti, della guerra e sentirli rispondere quale guerra? Vi stiamo salvando!»
Dopo qualche giorno, Michele smette di farmi domande sull’occupazione dell’Ucraina. A casa non ne parliamo e non ascoltiamo il telegiornale in sua presenza. Sino a ieri, quando all’ora di cena, tra un boccone e l’altro, mi dice:
«Secondo Yana la guerra non esiste.»
«Yana la tua compagna russa? – domando – Si? Dice così?»
E mi immagino il lavaggio del cervello fatto alla bambina magari dai genitori filo Putin.
«Si, ha detto così, – risponde Michele mentre afferra un pezzo di carne ai ferri – secondo lei la guerra non esiste perché ha molte amiche ucraine.»
Allora chiudo gli occhi, tiro un sospiro di sollievo e ringrazio i bambini per la loro stupenda innocenza, per la loro logica ferrea e la capacità di ricondurci sempre in territori che pensavamo perduti.
«Ha ragione Yana, – gli dico – ha ragione la tua amica. La guerra dipende anche da ciascuno di noi.»
Poi continuiamo a mangiare, in silenzio, con quelle parole che volteggiano ancora nell’aria, e penso: c’è speranza. Mi ripeto: c’è speranza. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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