Fellini e Visconti, La Dolce vita e Il Gattopardo. Storia parallela di capolavori e censura

Federico Fellini e Luchino Visconti non si amavano, eppure la loro grande avventura artistica li vide avere nemici comuni: gli intellettuali comunisti che non accettarono il loro allontanarsi dal neorealismo, la censura che forsennata li perseguitò fino a indebite pressioni sulla giuria del Festival del cinema a Venezia. Ma la grandezza del loro cinema fu più forte dell’ostracismo
L’articolo di VITTORIO EMILIANI
È STATO TRASMESSO in tv nei giorni scorsi un racconto molto diffuso e particolareggiato su due film assai diversi che però hanno fatto la storia del nostro cinema nel mondo, cioè “La dolce vita” di Fellini e “Il Gattopardo” di Visconti. Su entrambi i film si abbatté la stroncatura della critica comunista perché entrambi erano palesemente fuori dal neorealismo.
Federico Fellini non era mai stato un seguace fedele del neorealismo e si era già preso critiche pesanti coi film precedenti, dai “Vitelloni” alle “Notti di Cabiria”, al di là della qualità stessa dei film, ma perché gli stessi erano ormai al di fuori della tematica e della narrazione neorealista. Anche Visconti già con film precedenti era uscito dal recinto guardato a vista da Mario Alicata e compagni e quindi seguito con crescente sospetto. Era il Pci però ad essere culturalmente, e non solo, lontano rispetto all’evolversi della società italiana verso nuovi modelli. “La dolce vita” vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes 1960 come miglior film (presidente della giuria era lo scrittore Georges Simenon) e successivamente fu candidato a 4 premi Oscar (vincendo con Piero Gherardi quello dei migliori costumi, ndr).
Il successo di Visconti col “Gattopardo”, tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa deceduto nel frattempo per un cancro, fu straordinario. Il romanzo era stato accompagnato da vendite inusitate per l’Italia, e da una campagna ostile da parte della stampa di sinistra, l’Unità in primo luogo, la quale lo aveva descritto come un romanzo “di destra” che dava della liberazione della Sicilia dalla dominazione borbonica un quadro conservatore e peggio.
Il film quindi era molto atteso anche per il cast internazionale che, con Burt Lancaster nelle vesti del principe di Salina, Visconti si era assicurato. Certo il “Gattopardo”, come libro, aveva suscitato già taglienti polemiche quando era uscito da Feltrinelli postumo dopo essere stato rifiutato da altri importanti editori e dai loro staff a cominciare da quello prestigioso guidato da Elio Vittorini e anche da quello che aveva come guida Giorgio Bassani. Il successo nelle vendite era stato di portata subito eccezionale e quindi tutto ciò che riguardava il “Gattopardo” diveniva materia rovente.
I due grandi registi non si erano mai amati. Visconti più anziano era arrivato al cinema dopo un periodo di apprendistato a Parigi con Jean Renoir dove si era anche molto occupato della sua scuderia di galoppatori purosangue. Fellini era diventato sceneggiatore dei primi film neorealisti con Rossellini e Blasetti. La sua prima pellicola, “Luci del varietà”, l’aveva girato con Alberto Lattuada, ma il suo primo film era stato “Lo sceicco bianco” con Alberto Sordi. Poi il grande successo era arrivato con “I vitelloni” (1953) sempre con Sordi e con Franco Fabrizi.
Con “Senso” (1954) Visconti aveva già avuto dei problemi con la censura occhiuta di quegli anni. Si sapeva che gli alti comandi dell’esercito e dei carabinieri non avevano apprezzato affatto le scene sulla battaglia persa a Custoza dall’esercito sabaudo ancorché spalleggiato dai volontari veneti e lombardi. Le scene del tradimento dell’ufficiale austriaco interpretato da Farley Granger e della delazione di Alida Valli l’amante abbandonata erano giudicate negativamente dai censori. Ce n’era abbastanza per non far vincere al film di Visconti il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia.
Ma grandi difficoltà censorie avrebbe incontrato anche “I vitelloni” di Fellini nonostante il favore dei circoli cattolici più evoluti e nonostante la collaborazione attiva di giornalisti come Camilla Cederna nota per il suo laicismo e però ben vista dai gesuiti milanesi del Centro San Fedele. Ragion per cui il capolavoro di Fellini ebbe soltanto un Leone d’argento. La Giuria decise di non assegnare nessun Leone d’oro quell’anno. © RIPRODUZIONE RISERVATA