Dodici anni di guerra civile in Siria, e non c’è fine. Dal quasi conflitto mondiale all’indifferenza

Dodici anni di guerra civile in Siria, e non c’è fine. Dal quasi conflitto mondiale all’indifferenza

Una guerra civile che continua da dodici anni, un Paese in ginocchio, la spregiudicatezza della comunità internazionale tra “linee rosse” da non superare, tentazioni di interventi militari, e indifferenza per una tragedia collettiva che vede sfollato un terzo della Siria. Chi si è rafforzato, nel tempo, è il dittatore Assad, ma si è rafforzato sulle macerie. Con l’unica preoccupazione, per l’Europa, dei migranti che si vuole tenere alla larga, anche se i siriani sono tra chi più al mondo avrebbe diritto di essere accolto come rifugiato. Dodici anni di guerra, e non c’è uno spiraglio che ne faccia vedere la fine

L’analisi di FABIO MORABITO

DODICI ANNI FA, nel marzo del 2011, con le prime pacifiche proteste di piazza, sull’onda di quella che dai media dell’Occidente fu chiamata “Primavera araba”, germogliò il seme avvelenato della guerra civile in Siria. Una guerra che non è finita e non si sa quando finirà. E che può essere letta in parallelo come triste presagio anche per la guerra in Ucraina. I conflitti nel mondo non solo si moltiplicano ma tendono a cronicizzarsi. E le conseguenze non sono locali, ma globali.

Quella che fu chiamata da subito “Primavera araba” suscitò molte attese da chi la guardava dall’Occidente. Ci sono stati dei fatti, all’inizio, che non potevano che suscitare ammirazione nel dolore. Lavoratori che in Africa (Tunisia, Egitto) si diedero fuoco per dare forza alla loro protesta. Immediata l’associazione con il sacrificio dello studente cecoslovacco Jan Palach, che si immolò dandosi fuoco a Praga nel gennaio del 1969 contro l’invasione dei carri armati sovietici. Allora si parlò di “Primavera di Praga”, e il suggerimento di una riscossa era forte, anche se l’Europa dell’Est dovette aspettare altri vent’anni, con la caduta del Muro di Berlino, per immaginarsi libera.

I capitoli della Primavera non si sono conclusi come si aspettava un Occidente osservatore entusiasta (ma anche violento protagonista, come è stato con la Francia e gli Stati Uniti in Libia). Di come stia l’Egitto oggi, si sa: dopo le dimissioni del dittatore Hosni Mubarak (adesso ultranovantenne, ed assolto dall’accusa di responsabilità nel reprimere le proteste), ci sono state elezioni democratiche e poi un colpo di Stato. Di come stia la Libia oggi, si sa. Deposto e ucciso Muammar Gheddafi, il Paese si è diviso entrando in una conflittualità tra fazioni appoggiata da forze straniere, dalla Francia alla Russia, dall’Egitto alla Turchia fino agli Emirati Arabi Uniti. Paesi mossi da propri interessi economici e geopolitici. Ora la Libia è instabile, insanguinata, più povera, con un destino incerto. Ma a differenza di quello che era successo in altre dittature, dove c’è stato comunque un cambio di potere (in peggio, ma c’è stato), in Siria non si è riusciti a smuovere il presidente Bashar al Assad, sostenuto militarmente dall’Iran, dai combattenti Hezbollah libanesi, dalla Russia. E, nell’occasione del dodicesimo anniversario della manifestazione di protesta che convenzionalmente viene indicata come inizio del conflitto (il 15 marzo a Dara’a, nel sud del Paese), Assad è andato a Mosca dal presidente russo Vladimir Putin, confermando reciproca amicizia.

A Dara’a la repressione militare fu durissima, ci furono centinaia di morti, mentre in altre parti del Paese l’intervento di polizia si era fermato ai fumogeni. Le rivolte furono appoggiate — ed è possibile che siano state finanziate — dalle monarchie islamiche integraliste come Arabia Saudita e Qatar, ma anche, secondo fonti francesi, dalla Turchia. Un conflitto sanguinoso che veniva ben visto delle parti più nazionalistiche di Israele, tranquillizzate da un nemico alle porte finito in guerra con sé stesso. Un nemico di cui Israele ha occupato le Alture del Golan, che prima della guerra arabo-israeliana erano territorio siriano. Annessione militare — quella di Israele — non riconosciuta dalle Nazioni Unite e ancora, a distanza di cinquant’anni, questione irrisolta.

In questo quadro Assad è dittatore spietato, ma era — prima del conflitto — anche la garanzia della convivenza religiosa tra le varie comunità. Di religione alawita (una minoranza sciita nel Paese), è l’espressione politica di un socialismo islamico — con un avanzato welfare — che accompagnò la Siria in una situazione di diffuso benessere nonostante tra i Paesi arabi sia quello che non poteva contare sulla formidabile spinta dei giacimenti di petrolio. La Siria incentivò il turismo, in chiave prevalentemente culturale, e si dotò di infrastrutture moderne. 

In questi dodici anni si è perso tutto, e non si è conquistata la libertà che peraltro non esiste in due terzi del mondo. Non si sa quanti siano stati finora i morti della guerra civile, certamente centinaia di migliaia: 306 mila nei primi dieci anni secondo una fonte Onu sulle morti documentate, molti di più secondo le stime del Sohr, Osservatorio siriano per i diritti umani, che ha sede a Londra, e che viene definito “anti-Assad” ma in realtà ha denunciato delitti anche dei ribelli. C’è una vicenda che è stata a lunga controversa, quella dell’uso delle armi chimiche, a cui si è ricorso durante il conflitto con reciproche accuse tra il regime e i ribelli. Due anni fa si sfiorò la guerra con gli Stati Uniti, proprio in seguito all’uso di armi chimiche in un’azione militare. Secondo Barack Obama, quand’era presidente degli Stati Uniti, era stata superata da Assad la “linea rossa” che fino a quel momento aveva escluso un intervento militare degli Usa. Questo nonostante la Commissione Onu impegnata ad indagare sulla guerra e sulla violazione dei diritti umani in Siria, non confermasse la tesi americana. «Per il momento noi abbiamo solo elementi sull’uso di armi chimiche da parte dagli oppositori»sostenne Carla Del Ponte, ex procuratore capo del Tribunale penale internazionale e componente all’epoca della Commissione. Nonostante questo, Obama era a un passo dal bombardare Damasco. E, si potrebbe aggiungere, nonostante Washington non abbia la statura morale di dire quali armi siano inaccettabili, non avendo firmato l’accordo che proibisce l’uso delle micidiali bombe a grappolo, quelle che hanno causato morti e mutilati a distanza di anni dalla fine dei conflitti, perché sono bombe che si dividono a frammentazione lasciando mini-ordigni sparsi nel territorio.

Fatto è che Obama — che fino ad allora si era limitato a fornire armi ai ribelli — ci ripensò, prima dicendo che sarebbe stato opportuno un voto del Congresso, e poi aderendo al piano russo di smantellamento degli arsenali chimici in Siria. Così fu evitata un’azione di guerra dagli Stati Uniti che sarebbe potuta essere un’ulteriore strage nel martirio di un popolo. Assad, che negò di aver usato armi chimiche, accettò di aderire al trattato che ne vietava l’uso.

La guerra così non entrò in una nuova spirale, ma neanche si fermò, e nonostante altre successive denunce sull’uso di armi chimiche — negli anni successivi — non si parlò più di “linea rossa”.

Un conflitto anomalo, perché Assad si è trovato a combattere contro fazioni diverse guidate da interessi diversi. Comprese le milizie dell’Isis, quelle dello Stato islamico, il grande attore degli ultimi attentati terroristici in Occidente. Ma i fronti del conflitto sono molteplici. La Turchia di Recep Tayyip Erdogan, nemica di Assad ma anche dei suoi oppositori curdi, sostenendo di voler combattere quelli che definisce «i terroristi» del partito Pkk, ha bombardato più volte il nord della Siria. Ma i curdi, già nel 2019, si sono accordati con il regime di Assad in funzione anti-turca.  Ora Ankara e Damasco sono unite nella tragedia del terremoto, che ha devastato la regione di confine, e che ha aumentato il numero degli sfollati siriani, costretti al freddo invernale nelle tendopoli.

Il sisma non ha fatto differenze, colpendo i territori controllati dal regime come quelli controllati dai ribelli. Solo dopo qualche giorno dal terremoto Washington ha accettato di allentare le sanzioni che avrebbero ostacolato i soccorsi. Come farli arrivare a destinazione? Il regime è stato accusato di volerli controllare, distribuendoli come fossero aiuti governativi. Ma un’agenzia autorevole, la Reuters, sostiene che gruppi ribelli avrebbero respinto i soccorsi solo perché provenienti da Damasco.

Il primo nemico della guerra è la solidarietà. Per fortuna, alcune organizzazioni umanitarie hanno scelto di aiutare non solo i turchi — più facile — ma anche i siriani, senza dare un preventivo giudizio etico sulle fazioni in lotta. La Siria, in qualche modo, si rialzerà dal terremoto. Ma saranno tempi lunghi quelli necessari per rialzarsi dalla guerra, che non è finita e che non accenna a finire, anche se Assad ha dimostrato, già con l’accordo con i curdi, un’attitudine a ricucire rapporti. Lo scorso anno si è recato negli Emirati Arabi Uniti, prima visita diplomatica in un Paese arabo dall’inizio della guerra.

L’Unione europea si preoccupa soltanto che i siriani in fuga non entrino in Europa, e ha pagato la Turchia per fermarli. Ora ci sono — ma la stima è molto approssimativa — tre milioni e mezzo di prufughi siriani in Turchia. Nel Libano — un Paese delle dimensioni della Liguria — ne sono accampati un altro milione e mezzo. Erano bellissime Damasco e Aleppo. Ma lo strazio di un popolo non imbarazza, se si riesce a dimenticarlo. © RIPRODUZIONE RISERVATA