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Dimetterci da italiani? Cresce la tentazione di chiudere bottega col povero Paese della Sgarbatella

di Italia Libera   
Dimetterci da italiani? Cresce la tentazione di chiudere bottega col povero Paese della Sgarbatella

Quindici anni fa, Umberto Eco aveva dichiarato di voler lasciare l’Italia perché, sosteneva, il Berlusconismo imperante apriva le porte al ritorno del fascismo. Era stato criticato anche da sinistra e accusato di sfascismo e diserzione dal dovere dell’intellettuale progressista di opporsi ai nemici della democrazia. Ora vediamo che aveva ragione su tutto, o quasi tutto. Perché neanche lui aveva previsto che la destra destra del governo Meloni, dopo tanti anni passati nell’anticamera del potere in attesa di cogliere l’occasione prossima ventura, si mostrasse, alla prova dei fatti, così impreparata a gestirlo. Ci dà, così, un’immagine di sé anche più ridicola e inetta di quella del Duce e dei suoi gerarchi. Purtroppo anche nel resto del mondo occidentale i nuovi fascismi guadagnano terreno. E allora anche lasciare l’Italia potrebbe rivelarsi un rimedio temporaneo. A meno di non turarsi il naso e chiedere a Musk un passaggio per Marte…

◆ Il commento di MAURIZIO MENICUCCI

Se non fosse che non mi trovo a mio agio nei panni del disertore, cederei alla voglia, che mi prende sempre più spesso, di cambiare Paese. E non per trovarne uno dove pagare meno tasse, come molti miei colleghi, ma per poter fare fino in fondo una cosa molto più sana e liberatoria: ridere fino alle lacrime di quel che siamo diventati. Un piacere che mi concedo con grande parsimonia, perché, nonostante le occasioni e le tentazioni, mai così numerose, avverto subito un certo imbarazzo nel divertirmi per le disgrazie mie e dei miei concittadini. Non si tratta, ovvio, del vecchio rifiuto fascista, oggi rispolverato in chiave sovranista, di mettere alla berlina i difetti dell’italiano medio, che per altro sono bilanciati dai difetti dell’inglese, o del francese, o del tedesco. Per non dir dell’ebreo, maestro insuperato di barzellette sui vizi e sui vezzi della propria cultura quando ancora non riteneva, come adesso, che ridere di se stesso fosse auto-antisemitismo. 

Parlo, invece, delle sparate, a dire il vero molto più letali per l’onore nazionale evocato a ogni alba dalla Sgarbatella, dei fedelissimi ai quali la premier si ostina ad affidarsi, in luogo dei competenti. Salvo poi doverli difendere a muso duro quando, come di nuovo in queste ore, diventano le migliori macchiette di se stessi. Cosicché, quando uno vede il mai-abbastanza-sotto segretario alla Giustizia, Del Mastro (lo ricordiamo tra i protagonisti del Capodanno di fuoco a Biella), dire con la raffinata mimica del bounty killer quel che ha detto agli agenti penitenziari, tanto per fare un esempio ancora caldo di polemiche, non si sa se a parlare è l’autentico viceministro, o il Crozza in una delle sue più riuscite imitazioni. 

È sotto gli occhi di tutti − anche di quelli ben pagati per tenerli chiusi, come i redattori di Libero e del Giornale e i vertici della Rai − che le sciocchezze, le gaffe e i borborigmi, liberati dalle cavità orali dei più alti rappresentanti del governo e del sottogoverno meloniani, sono tali e tanti, da sfuggire in parte alla contraerea della cronaca. Non si fa in tempo a rabbrividire per la presunta scomparsa del patriarcato, annunciata a margine del più esemplare femminicidio di questi anni dal ministro Val di Tara, o per il testa coda ideologico, quello sì, radicale , della ex suffragetta Roccella O’ Hara sui diritti delle donne, che subito arriva ad assordarti un altro boato. Così, molte performance, non meno strabilianti, passano inosservate. Ed è un vero peccato, se non altro dal punto di vista statistico. Perché almeno il nostro Paese potrebbe, con ampia facoltà di prova, vantarsi, o rammaricarsi, per avere (avuto, purtroppo, non si può dire) l’esecutivo più comico, corrotto e ignorante della recente storia europea. Quanto al passato, mancano dettagli credibili, ma tirando in ballo paragoni con Caracalla, o Erode, o Attila, metteremmo in ulteriore difficoltà il nostro governo, anche al netto del dismesso Sangiuliano e del neoletargico Lollobrigida. 

Nelle ultime ore, tanto per mantenere la straordinaria cadenza fin qui dimostrata nel prendersi a schiaffi davanti al più ampio uditorio possibile, riversando sui sociali ogni abbozzo di pensiero, a segnalarsi è il senatore Claudio Borghi, leghista toscano e salviniano della prima ora, nonché alto papavero di questa sventurata maggioranza di paperi. La vicenda, per sommi capi, è questa. Un tizio aveva lamentato il fatto di non potersi più bere una bottiglia, secondo le nuove regole di guida emanate dal ministero al Ponte di Messina, pardon, ai Trasporti, Matteo Salvini. Borghi, sentendo stormir di fronda nello zoccolo duro dei suoi, era accorso a tranquillizzarlo, sostenendo che, giusto il limite di legge pari a 0.8, la capienza reale di una bottiglia è 0.75, quindi la si può scolare senza tema prima di brandire il volante. Che il bravo onorevole fosse sobrio, o meno, era chiaro che stava confondendo la capienza della bottiglia in litri con la soglia dell’alcool, espressa in millilitri. L’errore gli è stato subito contestato, tra gli altri, da Marco Cattaneo, laureato in fisica e direttore della rivista Le Scienze. Borghi, impavido, ha replicato che lui ben lo sapeva, e aveva solo semplificato il calcolo, in base a un misterioso rapporto per cui si deve moltiplicare qualcosa per 4. 

Da qui in poi, il suo pensiero seguiva in modo esemplare il rito meloniano del ‘non sono io che ho sbagliato, siete voi che non mi avete capito’, il che non gli darà ragione, ma lo candida ai più alti incarichi di governo. Anche perché, nei giorni scorsi, i suoi meriti nell’ambito della cultura del centro destra, si erano già arricchiti di un’altra squillante uscita, stavolta radiofonica. Era passata quasi sotto silenzio, ma rimediamo subito, perché anche questo è puro avanspettacolo. Ospite, dunque, della trasmissione serale ‘Zapping’, in veste di esperto di economia, Borghi ha osato affermare che se tutto il mondo corre dietro al mito dell’export, non si vede perché debba farlo anche il nostro Paese. A noi, che economisti non siamo, pare chiaro: il senatore è convinto che tutti producano lo stesso articolo, e non lo sfiora il sospetto che il commercio sia nato proprio per scambiare prodotti diversi, come ogni bambino che maneggi figurine, pokèmon e fumetti, sa a menadito, prima ancora di imparare a fare di conto. 

Coerente con questo assunto ‘turbo-protezionista’, Borghi, che presiede, ahinoi, la quinta commissione Bilancio del Senato, ha profetato anche il futuro economico dell’Italia. Che sarà, appunto,  scampare alla dittatura globale dell’export consumando ciò che produce. Davanti a una versione tanto elementare dell’autarchia da spaventare anche il Mussolini dei tempi migliori, uno potrebbe chiedersi quali sono i titoli del personaggio. La risposta è sul web, dove, tra altri particolari interessanti, il curriculum vitae lo dice laureato in economia all’Università Cattolica del Sacro Cuore, di Milano. Scacciando il fin troppo banale pensiero che ci voglia davvero un Cuore dotato d’immensa pietà per laureare menti capaci di simili virtuosità concettuali, il peggio è che l’economista Borghi, specializzato in credito bancario e già broker con qualche disavventura sanzionata da Bankitalia, risulta anche docente dello stesso ateneo. Dunque il danno è assicurato: avrà degli eredi. E a noi non resta che seppellirci di risate. O, appunto, dimetterci da italiani. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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