Dal Golem di Rabbi Löw ai replicanti di Ridley Scott: empatia del “doppio” e automi meccanizzati

Dal Golem di Rabbi Löw ai replicanti di Ridley Scott: empatia del “doppio” e automi meccanizzati

La parola “robot” è stata inventata dall’artista ceco Joseph Čapeck e introdotta in letteratura da una pièce teatrale del fratello Karel (1921). È un termine slavo che ha a che vedere con il lavoro, e il mito del Golem nasce a Praga. Siamo alla fine del Cinquecento e il rabbino capo crea con l’argilla un Golem, un automa che lo serve e ubbidisce ai suoi ordini, senza parola ma capace di agire anche in difesa degli ebrei praghesi sottoposti a persecuzioni. La leggenda di questo automa muto è la testimonianza della “meccanizzazione”: siamo all’alba del pensiero scientifico moderno e della Meccanica

Il racconto di HERR K

«DO ANDROIDS DREAM of electric sheep?» (Philip Dick). È impressionante come la fantascienza sbagli, clamorosamente, la valutazione dei tempi nelle sue fascinanti distopie. Orwell pronosticava il controllo globale del “Grande Fratello” nel 1984, meno di quarant’anni dopo la pubblicazione del suo libro, vabbè che aveva fresco alle spalle il nazismo e Churchill aveva da poco proclamato la “Cortina di ferro”. John Carpenter col suo “Fuga da New York” dà per già realizzata nel 1997, appena 16 anni dopo l’uscita del film, la trasformazione, nel vertiginoso crescere dei crimini, di tutta l’area urbana della Grande Mela come penitenziario di massima sicurezza, peraltro in balia al suo interno di criminali capeggiati da un “Duca” e di orde di orripilanti diseredati che escono dai tombini pronti al cannibalismo (nipoti degenerati, ma non troppo, dei “lumpenproletariat” dello “Stachka” di Eizenstejn). Nel 2001 dell’Odissea nello spazio di Arthur Clark (racconto) e Stanley Kubrick (film) i viaggi nel sistema solare a bordo di comode astronavi sono una realtà ordinaria e il computer HAL9000 ha raggiunto, o superato, l’intelligenza umana.
L’elenco sarebbe troppo lungo, torniamo a Philip Dick, che, per non far torto a nessuno, pone l’interrogativo sui sogni dei robot una cinquantina d’anni dopo l’uscita del suo racconto, nella San Francisco del 2021 (postergato rispetto a un iniziale 1992). Meglio ancora, per potenza di immagini e per un’esplicita suggestione, tornare a “Blade Runner”, il film di Ridley Scott (1982) che al racconto di Dick è ispirato. Piove quasi sempre una fastidiosa acquerugiola dai cieli scuri di una megalopoli ubiquitaria, il melting pot etnico ha raggiunto vette inquietanti e i tramonti sono velati, come si conviene a un mondo contaminato dal fall out radioattivo di una guerra atomica che ha spinto le Nazioni Unite a incoraggiare l’emigrazione verso altri pianeti. Al servizio degli umani in questa migrazione, dei robot eccezionali.

Questi “replicanti” fanno scolorire come pallidi e rozzi archetipi tutti quegli androidi che la Tv ci ammannisce con gridolini d’entusiasmo per celebrare innovative start up e il trionfo della Intelligenza Artificiale. Sono dei perfetti “lavori in pelle”, e per essere smascherati richiedono complessi test ad hoc quali li pratica Rick Deckard (Harrison Ford), un “cacciatore” incaricato dalla Polizia di San Francisco di “ritirare” i modelli Nexus 6 perché sospetti di ribellione (con buona pace di Asimov). Si stanno organizzando perché hanno imparato ad amare la vita e non accettano più i solo quattro anni programmati per loro dalla casa che li fabbrica. Sono andati oltre la pura intelligenza e hanno sviluppato empatia, non prevista dagli algoritmi di costruzione. Ecco la suggestione! E ad illustrare l’empatia verso gli uomini valgono le immagini più famose del film, quando Roy Batty (Rutger Hauer), il replicante, vince la sfida mortale con Deckard ma lo risparmia per amore di quella vita che ormai, lo sa, è per lui a fine programma. In questo senso, cioè lo sviluppo dell’empatia, celebrato con la fuga di Deckard insieme a una fascinosa e consenziente replicante, il cerchio in qualche modo si chiude con un ritorno all’inizio della primordiale genesi dei robot. Come?

Non è un caso che la parola “robot”, a denotare un androide, sia stata inventata dall’artista ceco Joseph Čapeck e introdotta in letteratura da una pièce teatrale del fratello Karel (1921). Robot è un termine slavo che ha a che vedere con il lavoro, e il mito del Golem nasce a Praga. Siamo alla fine del Cinquecento e Rabbi Löw, il rabbino capo, crea con l’argilla un Golem, un automa che lo serve e ubbidisce ai suoi ordini, senza parola ma capace di agire anche in difesa degli ebrei praghesi sottoposti a persecuzioni a causa dell’infamante calunnia del sangue (quello dei cristiani per usi rituali giudaici, ndr). Il Golem può essere attivato inserendogli in bocca, o sulla fronte, una striscia di carta con la scritta “אמת” (emét = verità), dove la prima lettera, ת, è un aleph. E può essere disattivato rimuovendo l’aleph, da “emét” a “mét” cioè “morte”.
Capostipite di infiniti discendenti, le sue immagini ce le propone, irripetibili e inquietanti, l’espressionismo tedesco nella trilogia dei film sul Golem, muti, diretti da Paul Wegener a partire dal 1915. E lì Praga vive anche attraverso i copricapi dei personaggi, che sono una citazione delle sue torri sormontate da una piramide tronca. Quella sul ponte Karel IV, la più bella porta gotica d’Europa, introduce a Hradčany verso la parte alta della città, scortati da quel meraviglioso rococò impalpabile come l’aria, magica, che si respira. Fino in cima alla “città d’oro”, alla stradina degli alchimisti, accanto al Castello, memore dei fasti della corte di Rodolfo II d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero, occultista e mecenate che aveva raccolto attorno a sé, a cavallo tra il Cinquecento e il Seicento, grandi scienziati e artisti dell’epoca. Tycho Brahe, Keplero, Giordano Bruno, Arcimboldo e De Vries, per fare qualche nome e per non parlare della favolosa collezione di dipinti, smembrata e dispersa dalla Guerra dei Trent’anni.

Che cosa dovesse essere il ghetto di Praga fino a prima della sua “ristrutturazione” urbanistica (1893) ce lo racconta Gustav Meyrink nel suo “Der Golem” (1915). In modo inarrivabile, lo afferma Franz Kafka. Un luogo di miseria e abiezione così esasperate, che gli stessi edifici ne risultano deformati, quasi un’espressione organica dello squallore e dei crimini che lì si consumano. In parallelo a una vicenda fantastica, che parte da uno scambio di cappello con quello di Athanasius Pernath nel duomo di Praga, là vicino al Castello e al vicolo degli Alchimisti, e conduce il lettore in un percorso onirico dentro i deformi luoghi del ghetto, in cui rivive ancora una volta il Golem, e davanti all’ “Appeso” dei tarocchi e al “palpito tellurico” di una donna gigantesca e misteriosa.
גלמי = il mio golem, è un termine usato in un salmo della Sacra Scrittura per definire la materia “grezza” che connota l’essere umano davanti agli occhi di Dio, prima che gli sia data vita e parola. È lo “imperfectum”, come traduce San Girolamo, lodato da Mircea Eliade per la perspicuità del termine nel descrivere qualcosa di incompiuto. La leggenda dell’automa muto di Rabbi Löw è però la testimonianza della “meccanizzazione” che nel corso di neanche tre secoli ha inspessito e “automatizzato” una sostanza in precedenza più fine e interiore. Del resto, non siamo all’alba del pensiero scientifico moderno e della Meccanica?

Gershom Scholem riporta che ancora nel tredicesimo secolo giovani studiosi della Kabbalah, clero delle sinagoghe, erano in grado di “produrre” nella meditazione pomeridiana un proprio “doppio” etereo, cui potevano anche affidare dei compiti. Un residuo, resistente, di un sapere antico attraverso migliaia di anni, quello praticato dagli sciamani, uomini e donne, delle steppe dell’Asia centrale come del deserto del Chad o nelle alture del Messico, per elaborare il proprio “doppio” e mandarlo in giro per dare aiuto. O per portare a compimento un potente sortilegio. Una capacità, quella dei giovani studiosi talmudici, che tre secoli dopo già degrada nella leggenda della creazione esoterica di un automa, altro da sé. Se vi capita di andare su in cima, nella “città d’oro”, deponete prima un sassolino sulla tomba di Rabbi Löw al cimitero ebraico. Un omaggio, certo, al grande studioso e filosofo, ma anche alla leggenda che ha dato il via ai moderni robot, seppellendo, proprio nella magica Praga, magie ben più antiche. E uccidendo così l’empatia del “doppio”, ridotto ad automa. Se “Blade Runner” lo permette. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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