Dai ritratti del Covid al mare di plastica dell’Artico: Maurizio Milesi alla ricerca dell’intimità umana e delle cose
Nel 2020 ha fotografato la tragedia del Coronavirus scoppiata in Val Seriana alle porte di casa. Un progetto di fotografia sociale raccolto poi nel libro “Epicentro”. «Mi immergo nelle situazioni che fotografo, vivendole in prima persona, sulla mia pelle, e cerco poi di raccontarne la storia attraverso le immagini e le interazioni con i soggetti. L’aspetto emotivo – intrinseco dell’esperienza umana – è quel qualcosa che esiste, ma non si vede… e che invece lavoro per mostrare attraverso le mie fotografie». Poi, nel 2023, la scoperta del mare e delle sue vulnerabilità ambientali, fino alla partecipazione al progetto della Ong norvegese “In The Same Boat” (Itsb) per ripulire il Mar Artico dai rifiuti di plastica. Il nodo centrale del nostro tempo è «lo scontro tra la tutela della salute e del pianeta e gli interessi dell’economia estrattiva alla ricerca di continua ed illimitata crescita». Al di là del lavoro sul campo per rimuovere la plastica, la missione di In The Same Boat è di «diffondere la consapevolezza e ottenere cambiamenti politici. Nel mio immaginario c’è un progetto di mostra, libro e cortometraggio»
◆ L’intervista di FABIO BALOCCO a MAURIZIO MILESI, fotografo ritrattista e documentarista
►Maurizio Milesi, classe 1993, laureato in Scienze della Comunicazione con una tesi in Semiotica del ritratto. Fotografo. Maurizio, tu non sei “nato” fotografo. Cosa ti ha fatto scattare questa passione?
«Negli anni della scuola superiore cercavo modi per “comunicarmi”. Ho sempre sentito un impulso creativo e, “invidioso” degli artisti che sapevano creare qualcosa da zero, come un pittore su una tela bianca, pensai che la fotografia, attraverso il suo legame inscindibile con la realtà, potesse essere il mio strumento di elezione. Poco dopo il diploma la prima reflex. Ho studiato e fatto miei gli aspetti tecnici, mi sono iscritto al corso di Comunicazione all’Università degli Studi di Bergamo ed ho poi proseguito nello studio della fotografia come mezzo di espressione, di comunicazione. Non vedo la fotografia tanto come atto tecnico, piuttosto come veicolo. Tanto la parola esiste per esprimere il pensiero, il pensiero deve esistere prima di poter essere espresso. E l’aspetto tecnico della fotografia è qui paragonabile alla parola. Si possono avere diversi livelli di dialettica, scrittura o padronanza del linguaggio, ma il pensiero a monte è ciò che fa la differenza».
— Nelle tue note personali parli di un particolare interesse per le persone e per le loro emozioni. Come si traduce questo in immagini?
«La diffusa abitudine a definirsi ed incasellarsi la sento abbastanza distante dal mio essere, ciò nonostante potrei definirmi fotografo ritrattista e documentarista. Il ritratto è per me lo strumento con cui entro in connessione con la persona che fotografo e attraverso il quale cerco di rappresentarla. Provo forte interesse per le persone, ma soprattutto per ciò che fanno e perché, per le loro motivazioni. Da qui nasce l’aspetto documentarista. Mi immergo nelle situazioni che fotografo, vivendole in prima persona, sulla mia pelle, e cerco poi di raccontarne la storia attraverso le immagini e le interazioni con i soggetti. L’aspetto emotivo – intrinsecodell’esperienza umana – è quel qualcosa che esiste, ma non si vede… e che invece lavoro per mostrare attraverso le mie fotografie».
— Nel 2020 tu hai fotografato la tragedia del Covid in Val Seriana, uno dei luoghi più colpiti dal virus. Ci puoi narrare di questa esperienza?
«Da tempo volevo realizzare un progetto di fotografia sociale e nel mio immaginario avrei dovuto viaggiare per cercare una situazione su cui costruire un progetto. Nel 2020, invece, mi sono trovato una pandemia alle porte di casa. Vivo a Ranica, paese limitrofo ad Alzano L.do e a pochi km da Nembro, i due comuni che sono stati primo epicentro Covid in Europa. Durante quei mesi di incertezza, paura e isolamento, si parlava sempre – comprensibilmente – di salute fisica, ma raramente di salute mentale. Con il mio progetto ho cercato di colmare questa lacuna creando un progetto – poi diventato un libro Epicentro – Covid 19 – Alzano L.do Nembro – Ritratti ed emozioni – Editrice Velar – che fosse uno strumento di comprensione, degli altri e di se stessi in primis. Epicentro si compone di ritratti intimi, scattati per lo più nelle abitazioni private dei soggetti fotografici e delle loro stesse testimonianze, con un focus specifico sugli aspetti emotivi e psicologici di questa esperienza».
— Data al 2023 la nascita della tua passione per il mare.
«Sì, nel 2023 incontro il mare. E scopro un legame forte, che non separo da quello che sento per la montagna. Per me mare e montagna sono un unicum di Natura, pianeta, casa, e nelle esperienze di marinaio negli anni ho scoperto come il mare possa essere più fragile – o quanto meno suscettibile – all’inquinamento. Una delle problematiche che più mi ha colpito è la plastica».
— Quest’anno ti sei unito al progetto della Ong In The Same Boat (Itsb) per ripulire il Mar Artico dai rifiuti di plastica. Non era il primo anno che la Ong operava in questa direzione. Come è nato il progetto e chi lo finanzia?
«In The Same Boat è una Ong Norvegese fondata nel 2017 da Rolf-Ørjan Høgset. È un’organizzazione di beach-cleaning (pulizia delle spiagge) e ha come obiettivo un Oceano libero dalla plastica. La Norvegia è il secondo paese al mondo per chilometri di coste, circa il 10% delle coste dell’intero pianeta sono Norvegesi. Il Fondo norvegese per l’ambiente dei rivenditori al dettaglio (Norwegian Retailers’ Environment Fund – Nref è stato fondato nel novembre 2017 come alternativa a una tassa imposta dal governo, al fine di garantire il rispetto dei requisiti e delle intenzioni della direttiva UE 2015/720 sui sacchetti di plastica. Il fondo finanzia progetti per ridurre l’inquinamento da plastica, sostenendo Ong e iniziative locali. Tra questi progetti c’è Rydd i tide (“Pulire in tempo”), che coordina raccolte di rifiuti sulle coste norvegesi, coinvolgendo volontari e organizzazioni. In The Same Boat è uno degli attori principali, grazie al coinvolgimento di migliaia di volontari provenienti da tutto il mondo. Purtroppo questi fondi non sono sufficienti a coprire tutte le operazioni della Ong, dunque fanno affidamento anche su donazioni e sponsorship. Io sono stato a bordo delle loro barche per 3 mesi».
— Parlaci dei tuoi mesi sulle barche a vela della In The Same Boat: quanto materiale avete raccolto, di quale provenienza e come è stato smaltito.
«Il primo impatto è stato demoralizzante. Nell’immaginario collettivo l’Artico, un luogo con una bassissima densità abitativa, è selvaggio ed incontaminato. Al contrario, le quantità di plastica che abbiamo trovato sulle coste sono impressionanti. Quando mi sono unito a ITSB l’equipaggio di Fonn – barca a vela di 50 piedi – era impegnato nella pulizia delle coste dell’isola di Lundøya (Nordland). 73 km di perimetro, 7 giorni di lavoro, 2.3 tonnellate di plastica raccolta. Nel Finnmark la situazione è molto peggiore. L’equipaggio di cui facevo parte era composto da 7 volontari e 3 skipper e aveva una missione: pulire una parte del Tanafjord, fiordo a poche miglia a est di Capo Nord. Il Tanafjord è una delle zone più incontaminate della Norvegia. Qui non ci sono industrie, allevamenti ittici, parchi eolici e quasi nessun essere umano. Eppure è una delle zone più inquinate della costa norvegese, con una media di 600 chilogrammi di rifiuti per chilometro di costa, su una lunghezza di circa 100 chilometri. È anche una delle zone più difficili da pulire, a causa del terreno roccioso, del fondale e delle onde che arrivano dal Mare di Barents. In poco meno di un mese abbiamo pulito 49 chilometri di costa e raccolto 22 tonnellate di plastica. L’80% circa derivante dalla pesca commerciale. Le coste di quest’area sono molto difficili da raggiungere anche via mare, dunque in questa missione sono stati fatti diversi depositi in grandi sacchi che sono stati recuperati proprio pochi giorni fa in elicottero. Normalmente le barche da lavoro di Itsb vengono utilizzate per caricare quanto raccolto e riportarlo al porto, dove si trova un container che una volta riempito verrà recuperato da un’azienda del sistema di gestione rifiuti».
— È un’esperienza che ripeterai?
«Non escludo un mio prolungato rapporto di collaborazione con Itsb nel futuro, per dare il mio contributo a questa importante missione».
— Si parla tanto di affrancarci dalle energie fossili, ma mai di affrancarci dalla plastica: del resto è sufficiente andare n un ospedale per renderci conto che tutto è plastica, che la plastica ci salva la vita. E mi viene da pensare che voi stessi, durante le operazioni, aveste indumenti di plastica o in parte di plastica. Quindi non possiamo affrancarci dal petrolio. Ne convieni?
«Parlare di affrancarci dalla plastica si fa anche, in parte, ma purtroppo ad oggi più a parole che nei fatti. Gli incontri di Ginevra lo scorso agosto lo hanno dimostrato, non portando a nulla di concreto. Il problema della plastica è che ci abbiamo costruito attorno quasi ogni aspetto della vita per come la conosciamo. Attorno ai combustibili fossili in genere, direi. Citi giustamente gli ospedali. Personalmente non penso ad un divieto o uno stop totale alla plastica, sarebbe abbastanza inverosimile. La strada da percorrere però dovrebbe prevedere una diminuzione netta della produzione che, al contrario, sta continuando a crescere (di questo passo si stima che nel 2050 il 20% dell’uso di petrolio sarà legato alla produzione di plastica); un riciclo migliore; l’abolizione forse assoluta del monouso civile (non ospedaliero) ed inutile – si pensi a quanti oggetti sono fatti di materiali ingegneristicamente perfetti che vengono utilizzati una volta per poi essere buttati; una normativa che porti a pari prezzo il costo della plastica riciclata con quello della plastica vergine. E che questa maggiorazione non porti però ulteriori costi al consumatore, che ad oggi è stato dipinto come il maggior responsabile del “littering”, l’abbandono incivile di rifiuti. Quando il vero, enorme, problema sta nel nodo centrale del nostro tempo: lo scontro tra la tutela della salute e del pianeta e gli interessi dell’economia estrattiva alla ricerca di continua ed illimitata crescita».
— Voi avere raccolto la plastica visibile, ma sappiamo bene dell’esistenza delle microplastiche, in mare, ma anche nei ghiacciai di montagna, come in atmosfera: sui parchi nazionali e le aree naturali protette degli Stati Uniti piovono annualmente oltre mille tonnellate di microplastiche. Quale il tuo pensiero al riguardo?
«La plastica utilizzata negli ospedali ci salva la vita, ma nel contempo il suo uso in qualsiasi altro campo e la conseguente dispersione causa enormi problemi anche proprio alla nostra salute, oltre che alle altre forme di vita animali e vegetali. Itsb si concentra sulla raccolta di macroplastiche, per evitare che queste poi con il tempo diventino micro. Ma è già dimostrato che oggi le microplastiche sono ovunque, persino nei nostri organi, nel nostro cervello. Per quanto riguarda il mare, pare si facciano strada attraverso la catena alimentare. Persino i piccoli (ma grandi) frammenti di plastica vengono scambiati dalla fauna marina per cibo e, quando non sono letali, restano nel corpo e finiscono sui nostri piatti. Purtroppo non ho la soluzione in tasca, ciò che è certo è che il concetto di crescita illimitata va messo in discussione oggi, per affrontare seriamente la crisi climatica. La plastica è solo uno degli aspetti. Finché resterà il profitto il criterio principe delle nostre scelte come società, non riusciremo ad uscire da questa spirale antropica. Nonostante tutto però, c’è speranza: l’oceano è un ecosistema resiliente, capace di rigenerarsi se smettiamo di sovraccaricarlo. Ogni spiaggia ripulita è un segnale che la strada è dura ma percorribile».
— Perché hai scelto di andare proprio nell’Artico? La plastica non è ovunque?
«Sono andato nell’Artico proprio perché la plastica è ovunque. Ho scelto un luogo che nell’immaginario collettivo è remoto e incontaminato: se persino lì le spiagge sono sommerse dai rifiuti, diventa impossibile continuare a pensare che sia un problema lontano da noi. Le mie radici sono nelle Orobie, tra le montagne: lì come in mare ho sempre trovato spazi di libertà e respiro, luoghi che ci ricordano la nostra fragilità ma anche la possibilità di rigenerarci. L’Artico e le montagne hanno in comune questa forza: meritano di essere protetti, e raccontarli significa anche proteggere noi stessi».
— Nel tuo progetto non ti sei limitato a documentare l’inquinamento e la raccolta dei rifiuti. Hai anche intervistato i volontari. Perché?
«Per me era fondamentale capire non solo cosa fanno, ma perché lo fanno. Ho scoperto che dietro ogni volontario c’è una storia personale: c’è chi viene per ritrovare speranza, chi per trasformare la propria eco-ansia in azione concreta, chi per sentirsi parte di qualcosa di più grande. Raccontare le loro motivazioni rende il progetto più umano e ci ricorda che il cambiamento nasce dalle persone, una alla volta».
— Quale adesso il destino delle tue fotografie?
«Ora mi sto dedicando al processo di selezione e editing delle fotografie. Vorrei riuscire a rendere questo progetto una mostra itinerante ed un libro. Al di là del lavoro sul campo di pulizia, la missione di In The Same Boat è di diffondere la consapevolezza e ottenere cambiamenti politici e la comunicazione è lo strumento più importante. Nel mio immaginario c’è un progetto completo: mostra, libro e cortometraggio. Il materiale c’è, ora sto cercando dei partner che abbiano la consapevolezza del problema e l’interesse per diffondere il messaggio».
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