Da Campo d’internamento a Parco letterario: la storia di Ferramonti, il lager dei musicisti

La pubblicazione curata dalla figlia di David Henryk Ropschitz, il medico psichiatra che nel 1982 decise di mettere nero su bianco la sua personale storia di sopravvivenza, racconta la vicenda del più grande campo di concentramento italiano. Costruito dal regime fascista a seguito delle leggi razziali, per molti aspetti il campo in provincia di Cosenza è stato un unicum nella storia della Shoah. Vi si celebrarono diversi matrimoni, nacquero tanti bambini, furono aperte molte sinagoghe, una cappella cattolica, una scuola e una biblioteca. Il clima di umanità e solidarietà rese possibile a Ferramonti una ricca vita artistica dal momento che tra gli internati vi erano molti musicisti di valore. Se a Ferramonti la dignità umana e la compassione prevalsero, fu soprattutto grazie al direttore del campo Paolo Salvatore e al monaco cappuccino Callisto Lopinot, che ebbe un ruolo fondamentale nel rapporto tra il Vaticano e la comunità ebraica
La recensione di ANNALISA ADAMO
NEI GIORNI DELLA memoria la storia di Ferramonti, il più grande campo di concentramento italiano, è stata ripresa, divulgata e spiegata in giro per l’Italia, grazie alla voce vibrante di Yolanda Ropschitz, la figlia di David Henryk Ropschitz, il medico psichiatra che nel 1982 decise di mettere nero su bianco la sua personale storia di sopravvivenza nel libro “La salvezza dietro il filo spinato. La pubblicazione, avvenuta a cura della stessa Yolanda, parte dall’infanzia agiata di suo padre nella Vienna degli anni ‘20 e gli studi di medicina negli anni ‘30 in Italia, fino all’ingresso forzato, nel 1940, ad opera del governo fascista a Ferramonti di Tarsia. Il testo ripercorre con tenerezza ed umorismo i tre difficili anni passati nel campo: le amicizie, gli amori, le privazioni, la fame, la costante e spaventosa incertezza.
Dopo essere stata ospite dell’associazione Italia-Israele e dell’associazione Ante Litteram a Taranto, di scuole ed istituzioni a Manduria e Cosenza, Yolanda Ropschitz, ha concluso questo suo primo viaggio proprio a Ferramonti, dove dal 25 aprile 2004 è stato istituito il Museo della Memoria Ferramonti di Tarsia a seguito di decennali operazioni di recupero degli spazi e ricerca documentaria, al fine di conservare, di preservare e diffondere il patrimonio storico del campo di concentramento.
Tutto contribuisce ad avvalorare l’idea che il più grande campo d’internamento per ebrei appositamente costruito dal regime fascista a seguito delle leggi razziali, per molti aspetti, sia stato un unicum nella storia della Shoah. Nel campo si celebrarono diversi matrimoni, nacquero tanti bambini, furono aperte sinagoghe, una cappella cattolica, una scuola e una biblioteca. Il clima di umanità e solidarietà rese possibile a Ferramonti una ricca vita artistica dal momento che tra gli internati vi erano molti musicisti di valore. Ai concerti eseguiti nel campo fu dato un nome che faceva sognare: Bunter Abend, ‘Serata Colorata’. Con queste serate musicali veniva tenuto vivo il ricordo di un mondo dove agli ebrei era consentito possedere una radio, suonare il jazz e sorridere alla vita, come nella canzone ‘radio spielen’, composta da Kurt Sonnenfeld nel tipico stile leggero viennese in voga in quegli anni. Si esibirono virtuosi di fama internazionale, tra cui Oskar Klein, considerato una delle migliori trombe dell’epoca, Lav Mirski, famoso direttore d’orchestra che dopo l’uscita dal campo emigrò in Israele e nel 1947 tornò a Osijek per diventare il direttore del Croatian National Theatre.
Se a Ferramonti la dignità umana e la compassione prevalsero, fu soprattutto grazie al direttore del campo Paolo Salvatore e al monaco cappuccino Callisto Lopinot, che ebbe un ruolo fondamentale nel rapporto tra il Vaticano e la comunità ebraica. Come scriverà nella sua relazione un ufficiale inglese, il campo di Ferramonti sembrava più un villaggio che non una struttura di sterminio. Inoltre, l’atteggiamento intelligente e collaborativo della comunità ebraica che comprendeva un buon numero di professionisti di alto livello unito all’atteggiamento accogliente degli abitanti di Tarsia e dei contadini dei dintorni, furono determinanti per far sì che la vita degli internati di Ferramonti fosse la migliore vita possibile, che la loro situazione e le circostanze storiche potevano permettere. I prigionieri persero la libertà, soffrirono la fame e le restrizioni ma non subirono crudeltà. Così nei giorni più neri della nostra storia, tutto ciò che i nazisti volevano distruggere a Ferramonti si è salvato. © RIPRODUZIONE RISERVATA