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Bye-bye America? Domani il voto più combattuto degli ultimi decenni. Il mondo con il fiato sospeso 

di Italia Libera   
Bye-bye America? Domani il voto più combattuto degli ultimi decenni. Il mondo con il fiato sospeso 

Mossa da un sentimento di amore profondo e critico per un Paese che ha segnato la propria vita professionale e personale, Maria Lodovica Gullino riflette, alla vigilia del voto di domani, sul proprio sogno americano vissuto fra tre delle migliori università. Tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento, ha fatto ricerca sul campo nelle aree rurali e ha potuto conoscere la vera America, oltre alle élite culturali frequentate nei campus universitari. Dopo l’attacco alle Torri gemelle, il Paese delle opportunità, della sana competizione e della convivenza fra persone e culture diverse, ha smarrito se stesso, è diventato diffidente e meno accogliente, anche nella ricerca. Dominato da una finanza che ha preso il sopravvento sulla competenza e lo spirito di servizio, lo scontro finale tra Harris e Trump è l’espressione dell’America attuale, più lontana dall’Europa. E dovremo farcene una ragione

◆ Il commento di MARIA LODOVICA GULLINO

► Il pezzo di Battista Gardoncini, uscito il 1 novembre su Italia Libera sulle elezioni americane, tanto coraggioso quanto onesto, ha scatenato in me una tempesta di sentimenti che desidero condividere. Non posseggo assolutamente le basi scientifiche per fare analisi politiche sulle elezioni americane di domani che tengono il mondo con il fiato sospeso, ma sono mossa da un sentimento di amore tanto profondo quanto critico (così bene più volte espresso da Oriana Fallaci) per un Paese molto amato, in cui ho trascorso anni di ricerca, che ha profondamente e positivamente segnato la mia vita, professionale e non solo. Fin da bambina ho vissuto il sogno americano attraverso le parole e il modello del mio mitico zio Piero, ricercatore a Bethesda. Lui mi parlava dell’America, mi stimolava a studiare l’inglese, mi abbonava quando ancora non sapevo leggere al National Geographic Society. L’America era il paese in cui sognavo di andare a fare ricerca. E l’ho fatto, trascorrendo ben quattro anni in periodi diversi in tre tra le migliori Università, negli anni 1980 e inizio anni 1990. 

Ero in America nel 1984 (Reagan-Mondale), 1988 (G. H. Bush-Dukakis) e 1992 (G. H. Bush-Clinton) e ho vissuto con curiosità e entusiasmo le campagne elettorali, le primarie, le convention. Tanto colorate e pittoresche quelle democratiche quanto sobrie quelle repubblicane. Un sistema che mi pareva avanzato, due schieramenti capaci di alternarsi, con visioni  diverse (più investimenti nella difesa con il Grand Old Party, maggiore attenzione alla ricerca con i democratici, ad esempio), senza grandi scossoni. Capivo anche che i candidati, di entrambe le parti, erano, alla fin fine, l’espressione dell’americano medio. L’America mi pareva il paese perfetto, pur con le sue mille contraddizioni. Apprezzavo la possibilità che ognuno aveva di emergere, impegnandosi, la sana competizione, la convivenza di persone provenienti da paesi e culture diverse, il senso del servire. Mi colpivano (e divertivano) le tante stravaganze (da Halloween a San Valentino) ora tutte  importate, ma le consideravo parte del sistema ed espressione di un paese giovane. Mi impressionava il consumismo spinto all’eccesso

Ho trascorso i miei quattro anni nei migliori campus universitari, certamente frequentando una élite culturale, ma il mio lavoro nel campo dell’agricoltura mi ha portato a visitare aree rurali, conoscendo quindi quella che è la vera America. Quella che mostra a noi italiani (where is Torino? domanda classica che ricevevo) il frigorifero, quasi arrivassimo dalle caverne. Ma quell’America, pur così piena di contraddizioni, era un punto di riferimento. Un Paese sano, generoso, accogliente. Zio Piero mi spiegava che in realtà gli Americani erano onesti soprattutto perché il loro sistema impediva loro di essere disonesti: lo spoil system, il rigoroso sistema di tassazione, erano pensati, applicati e accettati da tutti. 

Da anni oramai la mia America, quella che mi aveva formata, insegnato a essere più sicura di me, che mi aveva fornito spunti di ricerca e una formidabile rete professionale non è più la stessa. L’11 settembre 2001 ha reso l’America diffidente e meno accogliente e il mondo della ricerca ha sofferto molto questo cambiamento. La crisi finanziaria del 2008 ha poi dato, a mio modesto parere, il colpo di grazia a quello che era (o sembrava essere) un sistema sano. Confesso di avere patito questo cambiamento progressivo, che ha portato l’America, un paese che per la mia generazione è stata un riferimento, a essere quella che è ora. Non c’è più da anni l’entusiasmo di un tempo, per cui non perdevo occasione di visitarla, 4-5 volte l’anno almeno, sembra molto attenuato quello spirito di servizio tanto americano che si sentiva forte anche nel campo della ricerca. E, purtroppo, quel po’ di esperienza del paese accumulata sul campo, mi porta a pensare che anche i candidati attuali, che suscitano, per motivi diversi, sentimenti molto controversi, non siano altro che l’espressione dell’America attuale. Un Paese in cui la finanza ha preso il sopravvento, in cui la competenza e lo spirito di servizio si sono attenuati, che guarderà sempre meno all’Europa, comunque vada a finire. E noi dovremo, pur dolorosamente, farcene una ragione. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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