Braccio di ferro tra ambientalisti ed Eni: “Vuole intimidirci”. L’azienda: “Chiediamo una mediazione”
C’è una causa in corso, messa in moto nel maggio scorso da due associazioni ambientaliste (Greenpeace e ReCommon) e da dodici privati cittadini contro l’Eni, che viene accusato di essere tra i responsabili, per la sua politica energetica, del cambiamento climatico e dei danni conseguenti. Il 26 luglio, nel pieno dell’emergenza meteo che affligge l’Italia (con almeno cinque morti per il caldo), le due associazioni denunciano: l’Eni ci vuole intimidire con una causa per diffamazione. La replica del “cane a sei zampe”: non abbiamo fatto causa, anche se ci sentiamo diffamati dalle accuse che ci vengono rivolte; abbiamo invece proposto una mediazione. Dietro questo scenario, c’è un cambiamento di approccio che vede chiamare in tribunale multinazionali e giganti del petrolio, per rispondere della spaventosa crisi climatica che stiamo vivendo
(Ivo Leone) — “HA MINACCIATO UNA CAUSA per diffamazione”. “No, nessuna causa per diffamazione, ma abbiamo cercato una mediazione”. È, nella sintesi, il botta e risposta tra ambientalisti ed Eni su una vicenda destinata a non chiudersi facilmente e presto. Cosa, quest’ultima, che potrebbe per certi versi essere anche un bene, perché costringe a parlare di un tema che sembrerebbe convincere tutti, cioè il necessario e progressivo (ma rapido) ritiro dall’uso dei combustibili fossili.
Il braccio di ferro è cominciato poco più di due mesi fa. Il 10 maggio scorso due associazione ambientaliste, Greenpeace Italia e ReCommon, insieme a dodici cittadini (è considerata necessaria la presenza in questi casi di persone fisiche tra chi intenta l’azione legale) hanno fatto causa all’Eni per chiedere al giudice di accertare la responsabilità di danni che la multinazionale avrebbe provocato, incidendo sui cambiamenti climatici con i suoi continui investimenti sul fossile. Si tratta di una causa (chiamata simbolicamente dagli ambientalisti che l’hanno proposta “la giusta causa”) che ha un evidente carattere dimostrativo. Si intende creare un precedente, favorendo una sentenza che sia un altolà alle speculazioni più spregiudicate.
Non è un caso pilota, anche se in Italia è il primo, almeno di questa importanza. Si tratta di “climate legation” cioè di azioni legali che servono a far pressione a governi e multinazionali perché rispettino gli standard necessari (che poi sono quelli coerenti con gli obiettivi internazionali) per contenere l’emissione di gas serra. Possono essere chiamate anche cause pro-clima: ne sono state finora intentate più di 2.200 nel mondo, molte delle quali sono dirette a più compagnie, perché insieme con la loro attività si presume che concorrano a compromettere il clima, di conseguenza l’ambiente, e quindi la salute dell’uomo.
Sono cause velleitarie? Davide contro Golia? Certo è vero che se le associazioni ambientaliste si fanno assistere da pool composti da più legali, la lotta è impari con multinazionali che possono difendersi senza limite di spesa. Oltretutto queste cause sono guidate prevalentemente da motivazioni ideali, come quella di “incassare” uno o più precedenti di giurisprudenza che aiutino le ragioni di chi difende la tutela dell’ambiente. Uno degli aspetti più interessanti della causa intentata da Greenpeace Italia e ReCommon è che non si chiedono i danni, che sarebbero presunti, ma anche incalcolabili e di proporzioni che metterebbero – se accertati – in ginocchio anche una ricca multinazionale. Si vuole – e lo ha spiegato Giuseppe Onufrio, direttore di Greenpeace Italia, in un’intervista proprio a Italia Libera – «solo un accertamento delle responsabilità dei convenuti per i danni provocati. Si chiede, quindi, di condannare Eni in solido con gli altri convenuti affinché limiti il volume annuo aggregato di tutte le emissioni di gas serra». Solo se in un momento successivo non rispettasse quanto deciso dal giudice, il “cane a sei zampe” potrebbe essere condannato a pagare i danni, in una somma decisa dal giudice.
Insomma, gli ambientalisti avevano fatto causa «per i danni subiti e futuri derivanti dai cambiamenti climatici, a cui Eni ha contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, continuando ad investire nei combustibili fossili».
Mercoledì 26 luglio ecco che Greenpeace e ReCommon sostengono che Eni avrebbe “minacciato” una causa per diffamazione. Cosa presto negata dall’azienda che, pur sostenendo che nelle affermazioni degli ambientalisti ci sarebbero contenuti diffamatori, la strada scelta sarebbe un’altra. Quella, prevista dalla legge, di una “mediazione”. Ecco la replica del colosso dell’energia: «L’Eni, allo stato, ha proposto una mera istanza di mediazione lamentando i profili diffamatori dell’accusa formulata a danno dell’azienda di compiere dei “crimini climatici” nell’implementazione della propria strategia di transizione energetica, definizione che Eni trova assolutamente intollerabile nella prospettazione, con profili di rilevanza penale, offerta dai due soggetti in questione».
In queste parole, evidentemente condivise con i legali dell’azienda, non si rinuncia esplicitamente a una causa, si conferma di averne titolo, ma di fatto si fa capire di non avere intenzione di proporre uno scontro di quel livello. Almeno per ora.
Una causa legale da parte di una multinazionale potrebbe avere un’efficacia intimidatoria, e non c’è dubbio che spesso sia stato così, se accompagnata da esose richieste di danni. In questo senso, sono assai pù temibili le cause civili di quelle penali. Ne sa qualcosa la trasmissione di inchieste giornalistiche “Report” di Rai 3, che è stata bersaglio di cause civili per cifre enormi. Cause che però in diversi casi, dopo essere state “gridate”, sono state ritirate nel silenzio prima ancora di essere discusse in tribunale: l’effetto è stato comunque quello di far conoscere una reazione indignata, che venisse recepita come una smentita dei contenuti dell’inchiesta scomoda. In questo caso, invece, trattandosi peraltro di una vicenda di oltre due mesi fa, anche se l’Eni avesse intentato una causa, sarebbe stata solo una strategia legale per depotenziare una denuncia scomoda.
Chiedere una mediazione è una strada che suona come un suggerimento ai giudici che dovranno affrontare una questione non solo spinosa ma totalmente nuova, e che apre a una via d’uscita tentando un accordo tra le parti.
Nella parte del mondo dove la sensibilità sulla transizione energetica sta crescendo, ormai i tribunali si devono occupare sempre più spesso di questo tipo di contenziosi. Una “pioniera” nota negli Stati Uniti è un’avvocata cattolica dell’Illinois, Melissa detta “Missy” Sims. Famosa è una sua causa per conto di 16 amministrazioni comunali di Porto Rico, contro alcune compagnie di combustibili fossili. Di cosa sono accusate queste compagnie? Dei danni provocati da “Maria”, che non è una signora ma un devastante uragano. E che c’entrano le industrie del petrolio? Perché è opinione diffusa, tra gli scienziati, che la forza devastatrice di Maria sia una conseguenza del cambiamento del clima. In California, la Contea di San Mateo ha citato in giudizio ben 29 compagnie petrolifere. È una guerra che è appena cominciata. © RIPRODUZIONE RISERVATA