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Bambina nella tana. In fuga con mia madre dal rastrellamento nazifascista nelle campagne astigiane

di Italia Libera   
Bambina nella tana. In fuga con mia madre dal rastrellamento nazifascista nelle campagne astigiane

I ricordi di una fuga durata sei mesi, su strade fredde coperte di neve e fango, dentro la cesta della bicicletta della madre. É così che una bambina, oggi docente e scrittrice, ha vissuto la drammatica guerra tra nazisti e partigiani, nell’Astigiano, sotto l’ala protettiva della giovane madre che grazie al suo coraggio ha salvato e preservato il diritto alla vita di sua figlia. Il marito aveva fatto la scelta partigiana e i fascisti volevano catturarlo, dando la caccia anche alla moglie e la bambina per ottenere la sua resa 

Il ricordo di LAURANA LAJOLO, saggista e scrittrice
MI IMMEDESIMO NEI bambini ucraini in fuga con le loro madri (o anche da soli) perché anch’io, bambina durante la guerra tra nazisti e partigiani, ho dovuto scappare con mia madre durante il terribile rastrellamento nazifascista del 2 dicembre 1944 nell’Astigiano. Per me la guerra l’ha vissuta mia madre per difendere il mio diritto a vivere. E’ scappata su una bicicletta in una gelida giornata invernale su strade di fango e di neve, una fuga durata sei mesi, cercando rifugio da parenti, sotto falso nome, con spostamenti improvvisi determinati dalle sue premonizioni del pericolo, risultate poi sempre reali.

“Tanta fame, tanto freddo, tanto sonno”, dicevo legata al seggiolino della bicicletta e avvolta in una morbida coperta celeste“Tanta fame, tanto freddo, tanto sonno”, dicevo legata al seggiolino della bicicletta e avvolta in una morbida coperta celeste, mentre la mia giovane madre, ricca del coraggio quotidiano della vita e della sua maternità, mi trasportava nella neve. Aveva dovuto lasciare in fretta la sua casa in quella terrificante mattina del 2 dicembre 1944 perché il marito aveva fatto la scelta partigiana e i fascisti volevano catturarlo, dando la caccia anche alla figlia di due anni per ottenere la sua resa. Mia madre seppe difendermi in senso totale e da quei mesi angoscianti assorbì la convinzione di dovermi proteggere per tutta la vita, anche sacrificando la sua libertà e la sua identità. Si assunse come un dovere materno ineluttabile l’immensa responsabilità di salvare la figlia dalla brutalità assurda della guerra. Per far fronte a una situazione tanto drammatica lei, ragazza benestante e fiduciosa della vita, dovette ricavare dentro di sé una forza altrettanto grande della paura. “La guerra mi ha rubato la giovinezza”, diceva spesso. In guerra la sua responsabilità di giovane madre si dilatò improvvisamente: non aveva più soltanto il compito di nutrire e di allevare la figlia, doveva salvarla dai crudeli combattimenti che dilagavano anche nei piccoli paesi di campagna.

Un giorno mi fece scendere in una fossa sotto la stalla delle capre e, ipnotizzandomi con lo sguardo fisso su di me per tenermi ferma e zitta, mentre i fascisti rovistavano sopra le nostre teste per scovarci, mi sussurrò: “Non piangere e non parlare, fuori ci sono gli uomini cattivi”La guerra dentro le case non permetteva un rifugio sicuro neanche nella propria casa, non dava scampo e Rosetta cercò una strategia di difesa per la figlia e per lei con la solidarietà di altre donne, che la ospitarono e a cui fu riconoscente fino alla morte. Quelle contadine non furono soltanto generosamente ospitali, ma fecero la scelta più rischiosa anche per loro e la loro famiglia se la guerra avesse fatto irruzione nella loro cascina.Mia madre dovette proteggermi rintanandosi in nascondigli ricavati frettolosamente per l’arrivo del nemico. Un giorno mi fece scendere in una fossa sotto la stalla delle capre e, ipnotizzandomi con lo sguardo fisso su di me per tenermi ferma e zitta, mentre i fascisti rovistavano sopra le nostre teste per scovarci, mi sussurrò: “Non piangere e non parlare, fuori ci sono gli uomini cattivi”. Io non mi mossi, anche se sentivo un grande freddo fuori e dentro di me, ero come paralizzata. In quel tempo lungo, in cui eravamo sotterrate e facili prede, vidi uno scarafaggio che si muoveva ai bordi della piccola trapunta che ci isolava dal terreno: era un segno di vita e cominciai a seguire i suoi movimenti. Uscimmo salve dalla tana, ma in me rimase la sensazione che fuori, nel mondo, c’erano gli uomini cattivi.

Mia madre imparò a mentire con disinvoltura ai posti di blocco fascisti, quando andava a cercare notizie del marito partigiano, sempre in fuga e in combattimento. Visse l’angoscia della mancanza di protezione del suo uomo proprio quando la figlia richiedeva tutta se stessa e la responsabilità della sua vita ricadeva tutta su di lei. Sopportò quell’immensa fatica fino al deperimento di se stessa e il 25 aprile 1945 visse la sua liberazione personale dalla prigionia di essere braccata con la bambina. Una foto tessera la ritrae magra, con gli occhi ancora sbarrati per la tensione. Ma non si ritenne mai un’eroina, aveva compiuto il suo dovere di madre. Rielaborò quell’esperienza raccontandola alla figlia e alla nipote. Tramandò con le parole il suo orgoglio protettivo, il suo modo di intendere e di vivere la maternità. Oggi vedo l’impegno militare e economico per il dilagare della guerra, mentre vorrei convinte e coercitive trattative di pace, perché nelle guerre di oggi muoiono più bambini che soldati. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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