Autonomia differenziata e Costituzione. La riforma del 2001 peccato originale

Autonomia differenziata e Costituzione. La riforma del 2001 peccato originale

Ma come siamo arrivati a questo punto? La riforma per l’autonomia differenziata, che per ora è approdata a una prima tappa come “schema di ddl” presentato in Consiglio dei ministri dal leghista Roberto Calderoli il 2 febbraio scorso, nasce su un solco che non è stato scavato oggi. Bisogna andare alla riforma del titolo V della Costituzione, un passaggio dissennato (che però ha superato anche il voto di un referendum popolare), dove, a volere quel cambiamento-stravolgimento non è stato il centrodestra, che oggi è rappresentato al governo, ma il centrosinistra, che al governo c’era alloraL’articolo di CARLO IANNELLO

IL REGIONALISMO DIFFERENZIATO è tornato un tema attuale con l’insediamento del nuovo governo, che lo ha inserito fra i propri punti programmatici. Recentemente il Consiglio dei Ministri ha anche approvato un ddl nel tentativo di spianare la strada all’attuazione dell’art. 116, III comma della Costituzione, che consente alle Regioni di ottenere «forme condizioni particolari di autonomia». Un processo rischioso e difficilmente attuabile. Per comprenderne i rischi occorre spendere qualche riflessione sulla riforma del Titolo V del 2001, che ha previsto tale possibilità. Se il Titolo V del 2001 è stato efficacemente definito un «monumento di insipienza politica e giuridica» (così Gianni Ferrara, fra i pochi che si spesero per il no al referendum del 2001), sarà quasi impossibile trovare le parole adatte per definire l’attuazione di una disposizione che rischia di cancellare ogni residua traccia di razionalità, che ancora tiene assieme le nostre sfilacciate istituzioni.

Chiunque si mettesse a leggere, con la dovuta attenzione, l’articolo 117 della Costituzione, così come riscritto nel 2001, resterebbe basito. Si renderebbe conto che alle regioni sono state attribuite competenze su materie che trascendono il loro interesse, che nemmeno in ordinamenti federali sfuggono alla competenza della federazione. Le regioni «legiferano», infatti, in tema di «grandi reti di trasporto e di navigazione» (se sono «grandi» non superano, per definizione, i confini regionali?), di «porti e aeroporti» (può esistere un «aeroporto» di interesse regionale, cioè che colleghi Venezia con Verona o Milano con Bergamo?), alle Regioni è attribuito il compito di «coordinare» (sic!) la finanza pubblica, di disciplinare le «professioni» (ingegnere, avvocato, medico, ecc.), di occuparsi «dell’ordinamento della comunicazione» (cioè di una materia che sfugge allo stesso dominio dello Stato), finanche di dettar legge su «produzione, trasporto e distribuzione nazionali (sì, avete letto bene, «nazionali»!!!) dell’energia elettrica», di legiferare in tema di «commercio con l’estero» ad altre amenità. Per non citare le competenze residuali, quelle non espressamente attribuite né allo Stato, né alle regioni, che spettano – ça va sans dire – alle regioni: servizi e lavori pubblici, turismo, agricoltura, commercio, industria.

Se il sistema Paese non è imploso, lo si deve alla saggia opera di «riscrittura» (così in dottrina una rara voce critica) del Titolo V fatta, tra mille difficoltà, dalla Corte costituzionale. Un compito inedito, perché la Consulta è nata per giudicare della costituzionalità delle leggi, non per correggere, in via interpretativa, disposizioni (irragionevoli) della Costituzione stessa. Per comprendere che il riparto di competenze previsto dall’art. 117 Cost. sia privo di senso (logico, prima ancora che giuridico) non occorre essere laureati in giurisprudenza: le Regioni hanno competenze su materie che incarnano interessi che superano i confini regionali. L’art. 116.3 comma, che consente alle Regioni di acquisire «ulteriori» poteri, rappresenta, pertanto, un’irragionevolezza che si aggiunge ad irragionevolezza. Che senso ha attribuire «ulteriori» competenze alle Regioni se già su quelle che hanno attualmente non sono, di fatto, in grado di provvedere? Questo articolo contiene in sé un principio di dissoluzione del sistema, in grado di trasformare le Regioni in piccole patrie.

Il processo, oltre ad essere rischioso, come si osservava all’inizio, è anche di difficile attuazione. Come se non bastasse, la stessa procedura prevista dall’art. 116.3 è scriteriata: non si chiarisce chi sono gli attori del processo (parlamenti o governi); si fonda su un inammissibile principio pattizio che mette Stato e Regioni sullo stesso piano (al pari dell’art.114 Cost). La procedura prevede, infatti, una «intesa» fra Stato e Regione e una successiva legge dello Stato votata a maggioranza qualificata. Se ci si rendesse conto di aver fatto un errore, per riappropriarsi della competenza dismessa lo Stato dovrebbe ottenere il consenso della Regione con una nuova «intesa». Ma quale Regione acconsentirebbe a privarsi di una competenza? Ecco perché molti studi hanno indicato come costituzionalmente necessaria una legge di attuazione del 116.3 comma, proprio al fine di chiarire gli aspetti più controversi di una procedura solo abbozzata, con errori di impostazione tali, tuttavia, che difficilmente possono essere sciolti con un disegno di legge ordinaria.

Ad esempio, il disegno di legge approvato in Consiglio dei ministri cerca, senza riuscirvi, di mettere un argine a questa inammissibile conseguenza di un trasferimento perpetuo: è prevista la durata di 10 anni della cessione di competenze. Ma se ci si è resi conto di aver commesso un errore, 10 anni è un tempo infinito! E poi, cosa accadrebbe dopo 10 anni? Lo Stato non avrebbe nemmeno più un ufficio, mentre la Regione, inefficiente, disporrebbe di soldi e burocrazia; e con quali ulteriori danni per i cittadini si tornerebbe indietro? Se l’art. 116.3 comma risulta privo di logica (comune, prima ancora che giuridica), questo non vuol dire che la sua attuazione non possa far gola e che dalla sua irragionevolezza classi dirigenti irresponsabili non possano trarre profitto a detrimento dell’interesse generale. Questo articolo è, infatti, diventato un pass par tout usato da burocrazie e ceto politico regionali per acquisire maggiori poteri di spesa in ambiti dov’essa è ingente (scuola, istruzione, ambiente, beni culturali) o dov’è possibile ottenere entrate importanti (autostrade, ferrovie, porti, infrastrutture).

Questo è il vero motore che spinge gli attori regionali a invocare l’attuazione di questa disposizione: l’egoismo delle burocrazie regionali assetate di potere. Questo è il ricatto cui lo Stato da anni si sta piegando, non senza opporre resistenze; ricatto reso possibile dall’immenso peso politico acquisito dai presidenti delle Regioni grazie alla loro elezione diretta, altra ‘innovazione’ del ‘glorioso’ riformismo degli anni Novanta, che ha contribuito ad emarginare le assemblee elettive, a disgregare il sistema politico e ad esautorare ogni forma di partecipazione dei cittadini, al di là del mero esercizio del diritto di voto (per scegliere fra alternative politicamente indistinguibili).

Questo obiettivo che le burocrazie regionali si propongono è del tutto avulso da esigenze di funzionalità del sistema e dall’interesse dei cittadini: nessuno ha spiegato perché concessioni autostradali regionali sarebbero un vantaggio per i cittadini lombardi o perché un bene culturale patrimonio dell’umanità come, ad esempio, la Cappella degli Scrovegni dovrebbe essere gestito più efficacemente da un assessorato della Regione Veneto. E via dicendo. L’articolo 116.3 comma, come si accennava, è stato al centro dell’agenda di tutti, dico tutti, i governi (Conte I, Conte II, Draghi, e, adesso, Meloni), che si sono succeduti a partire da quello Gentiloni, che ha il torto storico di aver dato, a legislatura scaduta (28 febbraio 2018), irresponsabilmente il via a questo processo firmando delle scellerate pre-intese con il Veneto di Zaia, la Lombardia di  Fontana e l’Emilia-Romagna di Bonaccini, che miravano «esplicitamente» a una redistribuzione del reddito all’incontrario, come fu efficacemente sottolineato da Gianfranco Viesti e pochi altri (cito dalla pre-intesa firmata dal Governo Gentiloni con l’Emilia Romagna: i fabbisogni standard sono calcolati con riferimento «al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali, fatti salvi gli attuali livelli di erogazione dei servizi»). Tutta la propaganda in favore dell’autonomia differenziata, infatti, si è fondata sulla tesi, inaudita in qualsiasi Stato, per cui ci sarebbe un fantomatico quanto paradossale residuo fiscale (cioè la differenza tra tasse pagate e servizi ricevuti) negativo per le Regioni del Nord e positivo per quelle del Sud, cui si sarebbe dovuto rimediare. Come? Dando ai ricchi un diritto al rimborso a carico dei poveri!

Su questo punto, per la verità, il ddl appena approvato tenta (invano, sia chiaro), di porre un rimedio. Prescrive, infatti, che l’autonomia differenziata possa farsi solo a condizione che siano approvati i LEP, cioè i livelli essenziali delle prestazioni che debbono essere erogate su tutto il territorio nazionale in condizioni di uniformità (approvati, ‘ovviamente’ con un DPCM; tanto, a che serve più il Parlamento!). Un pannicello caldo, ha scritto giustamente Massimo Villone, anzi tiepido: i livelli essenziali sono un bluff. Si tratta di un’eguaglianza costruita sul minimo, che lascerebbe invariate le attuali e gravi diseguaglianze. Sia consentito solamente aggiungere che questa disposizione dell’ultimo ddl, assieme a quella della clausola dell’invarianza finanziaria (cioè nessuna Regione può avere meno risorse di quante non ne abbia attualmente), si pone almeno il problema non di non ampliarle (le diseguaglianze), cercando di porre un argine al paventato scippo dei ricchi a danno dei poveri. Può apparire surreale, ma questa previsione è, comunque sia, un tentativo di fare un passo avanti rispetto alle ipotesi precedenti: il ddl elaborato dal ministro Boccia del Pd, al tempo del Conte II, consentiva, infatti, persino di prescindere LEP e i fabbisogni standard andavano realizzati attraverso la «sostituzione delle risorse erariali con autonomia di entrata, territorialità dei tributi e perequazione»; era novembre 2019: ci salvò la pandemia).

Oramai politiche meridionaliste sono scomparse e fuori dell’orizzonte della politica attuale, indipendente dagli schieramenti. Chi ha una posizione meridionalista deve farsene una ragione. Potrà considerare una vittoria se le poche messi in campo non determinano un ulteriore peggioramento  della situazione del Mezzogiorno. Migliorarla, dovrebbe essere chiaro, non interessa più a nessuno: servirebbero risorse, che non si vogliono trovare. Per evitare che l’art. 116.3 comma svolga l’unica funzione realisticamente possibile, quella cioè di trasformarsi in un micidiale strumento nelle mani di burocrazie e ceti politici regionali assetati di aumentare il loro potere di spesa, si dovrebbe mettere mano a una seria revisione del Titolo V, riattribuendo alle Regioni questioni di interesse regionale, come faceva il testo del 1948, che specificava, quando ve ne fosse bisogno, che l’attribuzione di competenze era relativa alla dimensione regionale dell’interesse («lavori pubblici di interesse regionale», ad esempio).

L’occasione potrebbe servire anche per superare le incongruenze procedurali che si trovano nell’attuale 116.3 comma, frutto dell’idea perversa che le Regioni siano delle entità paragonabili allo Stato, da cui nasce un inconcepibile (per la dottrina dello Stato) procedimento pattizio per l’acquisizione di nuove competenze. Questa dovrebbe essere la prima preoccupazione di una classe dirigente responsabile, che voglia conservare un minimo di coerenza al sistema, evitando che l’Italia si disgreghi in tanti piccoli mini-stati. Solo a valle di una riforma del Titolo V, che riporti le competenze regionali in un quadro di ragionevolezza, si potrà poi concepire l’attribuzione di «ulteriori» competenze alle Regioni che non le renda delle piccole patrie.

Il peccato originale, infatti, si trova nel Titolo V, ultimo frutto, in ordine temporale, del cosiddetto ‘riformismo’ degli anni Novanta, che ha intrapreso un percorso che ci ha allontanati dallo spirito della Costituzione; oggi rimettere assieme i cocci è davvero complesso (come dimenticare le privatizzazioni e le liberalizzazioni, la precarizzazione del mercato del lavoro, l’aziendalizzazione della sanità, i tagli alla spesa sociale?). Ci si dovrebbe domandare come sia stato possibile che il parlamento abbia potuto votare disposizioni così irragionevoli, che attribuiscono alle Regioni competenze nel momento stesso in cui si qualificano «nazionali»; tutto ciò con il plauso dell’opinione pubblica. Una risposta (anche se parziale) ce l’ha data Gustavo Zagrebelsky nel 2016, durante il noto dibattito televisivo con Renzi sulla sua riforma costituzionale. Alla domanda di Renzi su come avesse votato al referendum sul Titolo V del 2001, il presidente emerito della Consulta disse di non ricordare (1h12mm), aggiungendo, poco dopo, «credo di aver votato no» e, qualche minuto dopo (1h28mm), che «fino a due anni fa» se «non ci fossimo dichiarati federalisti non avremmo avuto diritti di parola, perché l’ideologia era quella».

Insomma, in Italia per partecipare al dibattito pubblico non si deve andare troppo per il sottile. Per dovere di cronaca, occorre ricordare che, nel testo della riforma cosiddetta Renzi, così come uscito dal Consiglio dei Ministri nel 2014, il 116.3 comma era stato giustamente eliminato. A riesumarlo ci pensò un emendamento Finocchiaro-Calderoli , in sede di discussione parlamentare, a conferma che la sinistra, anche dopo il 2001, è stata il vero motore usato dalle idee della Lega (che, nel 2014, era una forza esanime di opposizione, numericamente marginale).

Non tutti i mali vengono per nuocere. Che il Governo Meloni abbia deciso, come i predecessori, di dare attuazione all’art. 116.3 comma, potrebbe anche avere risvolti positivi. Primo fra tutti: si può criticare il processo di devoluzione senza correre il rischio di essere esclusi dal dibattito pubblico. Inoltre, la volontà del governo in carica di dare attuazione al regionalismo differenziato potrebbe persino portare a qualche ripensamento sull’aumento smisurato dei poteri regionali che non ha influito minimamente né sull’efficienza delle Regioni né sui divari territoriali. Insomma, il centrosinistra adesso si sta strappando le vesti per un disegno che attua un testo costituzionale che porta la sua paternità. O siamo in presenza di un comportamento incomprensibile, ai limiti della dissociazione, oppure si potrebbe sperare che questa posizione rappresenti l’inizio di un processo (auto)critico che prenda atto del fallimento del falso riformismo portato avanti nel quinquennio 1996-2001. © RIPRODUZIONE RISERVATA