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2/ Pesca a strascico devastante. Che vita c’è, e quali segreti, nel Mediterraneo più profondo

di Italia Libera   
2/ Pesca a strascico devastante. Che vita c’è, e quali segreti, nel Mediterraneo più profondo

La pesca a strascico è limitata nell’Unione europea, ma non abbastanza da impedire che sia compromesso il patrimonio di biodiversità del Mediterraneo. Perché il nostro mare, nella sua profondità, contrariamente a quanto si è creduto fino alla prima metà dell’Ottocento, custodisce una straordinaria ricchezza vivente. Ma anche segreti che stiamo via via scoprendo. Mentre è ormai chiaro che la pesca esercitata tra i 500 e gli 800 metri di profondità risulti la più devastante sull’ecosistema marino profondo, che ne viene letteralmente sterilizzato. Un ‘capitale naturale’ da preservare per riconciliare economia ed ecologia. E l’Unione Europea finanzia un nuovo progetto, il Redress, con robot-giardinieri dedicati al reinnesto di coralli e altri organismi

L’analisi di MAURIZIO MENICUCCI

► Fino a metà dell’Ottocento il mondo scientifico era convinto che, a partire da poche centinaia di metri sotto la superficie del mare, le condizioni ambientali diventassero proibitive per qualsiasi forma di vita. Ovviamente i pescatori dissentivano, ma la ‘Citizen Science’ – la Scienza raccolta e portata agli esperti dal semplice cittadino – era di là da venire e nessuno chiedeva il loro parere. Così si andò avanti ancora per oltre un secolo a credere nel quasi-vuoto biologico delle grandi profondità. Il primo a toccare la madre di tutti gli abissi, i quasi undicimila metri della Fossa delle Marianne, fu Jacques Piccard con il batiscafo Trieste. Era il il 23 gennaio del 1960. E nonostante l’incontro, documentato da successive e sempre più intense esplorazioni, con platesse giganti e altre bizzarre creature spesso dotate di luce propria, si continuò ancora per decenni a dubitare che la temperatura e soprattutto la pressione, fino a mille volte superiore a quella della terraferma, lasciassero spazio a creature definibili poco più che sporadici tentativi di adattamento ad ambienti estremi. 

La genomica ambientale sta rivoluzionando questo scenario. Racconta Antonio Pusceddu, biologo marino dell’Università di Cagliari: «Una volta eliminati dai sedimenti i resti delle specie di superficie cadute sul fondo, il Dna ‘nativo’ segnala una densità di vita alle quote più profonde addirittura superiore (se si considerano i batteri) rispetto agli strati superiori. Non solo: per due terzi si tratta di organismi nuovi, per lo più microscopici, e spesso unicellulari, con metabolismi sorprendenti e adattamenti assai diversi da quelli finora conosciuti». Per la Scienza, insomma, gli abissi del mare nascondono i rami di un’evoluzione antichissima e parallela, che da una parte ripropone il tema della vita possibile su altri pianeti, ma dall’altra sembra indispensabile alla vita su questo. Roberto Danovaro, dell’Università Politecnica delle Marche, la definisce la più importante pompa climatica e biologica della Terra. «Gli ambienti marini profondi coprono oltre il 65% della superficie terrestre, regolando l’intera biosfera e, in particolare, svolgono un ruolo chiave nell’assorbire e sequestrare l’anidride carbonica. Per lo più si tratta di fondali mobili, di sabbia e fango, apparentemente desertici, ma in realtà caratterizzati da organismi e habitat unici e vulnerabili come campi di spugne, praterie di  gorgonie e di pennatule. Stime recenti indicano che il Mediterraneo profondo può ospitare quasi 3.000 specie, contro le 17.000 stimate per l’intero bacino. Oggi questi ambienti, caratterizzati da una grande geodiversità, come canyon, montagne sottomarine, vulcani di fango, stanno affrontando minacce senza precedenti. La pesca indiscriminata, l’estrazione di idrocarburi, l’inquinamento e i cambiamenti climatici mettono in pericolo ecosistemi straordinari e, in definitiva, la stessa capacità degli oceani di svolgere la loro funzione nella regolazione del clima e la fonte di sostentamento per milioni di persone». 

Per queste ragioni, insieme a MedReact, Danovaro e Pusceddu lanciano all’Unione Europea una proposta certamente non votata a un facile percorso politico, eppure «indifferibile se vogliamo salvare il Mediterraneo», aggiungono con una voce sola i due biologi marini. «Oggi nel Mare Nostrum lo strascico è vietato sotto i mille metri, ma è una soluzione parziale, che non tutela importanti habitat a rischio. È ormai chiaro, invece, che la pesca esercitata tra i 500 e gli 800 metri risulta la più devastante sull’ecosistema marino profondo, che ne viene letteralmente sterilizzato. Arretrare il divieto ai 600 metri farebbe respirare le risorse ittiche e renderebbe molto più sostenibile e ricca la cattura di alcune specie particolarmente ricercate, come i gamberi rossi e i gamberi viola». Se questi limiti, ammesso che vengano accettati, saranno efficaci è tutto da vedere, perché uno dei più grandi nemici della pesca è la pesca illegale, che preda le risorse destinate alla rigenerazione e distrugge gli habitat più vulnerabili.

Altre minacce, in crescita esponenziale nel prossimo decennio, sono lo sfruttamento delle risorse minerarie dei fondali, come i noduli di metalli in forma elementare, cioè già pronti e sempre più richiesti dalle nuove tecnologie, e le reti di trasporto energetico indispensabili a collegare tra i continenti, senza considerare le trivellazioni sempre più profonde dei giacimenti di idrocarburi. Le strategie ambientali dell’Onu e dell’Unione Europea, però, si  ispirano sempre più al concetto di ‘Capitale Naturale’, un nuovo approccio ‘ecosistemico’, che permette di riconciliare finalmente economia ed ecologia. Si basa sulla possibilità di attribuire un valore convenzionale di scambio, tecnicamente di ecoservizio, agli elementi naturali e culturali, materiali e immateriali, di un territorio. Dopo di che, esattamente come per una somma depositata in banca, gli interessi maturati potranno essere in parte goduti da chi ne ha diritto e proprietà, e in parte lasciati sul conto, affinché il capitale naturale possa aumentare nel tempo.

La complessità ecosistemica di quello che, mezzo secolo fa, Folco Quilici e il comandante Jacques Ives Cousteau, primi esploratori del Blu, avevano profeticamente chiamato Sesto Continente, sembra prestarsi particolarmente bene al modello del capitale naturale, ma con i meccanismi del mare non abbiamo la stessa confidenza di quelli di terraferma, e Danovaro suggerisce la cautela dell’apprendista. «Rendere positivo il rapporto tra natura, società ed economia presuppone una conoscenza degli ecosistemi che, nel caso del mare profondo, non è ancora sufficiente. I tempi di recupero degli habitat profondi sono lenti. Sappiamo, ad esempio, che alcune specie molto delicate, che indicano la qualità complessiva dell’habitat, come i coralli di acque fredde e profonde, vivono anche per millenni: distruggerli equivale a danneggiare per tempi lunghissimi i loro ambienti».

Molti paesi stanno tentando, la strada del ‘restauro ecologico’: riparano i danni fatti agli habitat marini negli ultimi decenni. Può essere realmente una soluzione? «A livello sperimentale − aggiunge Danovaro −, vantiamo notevoli progressi. Ad esempio, proprio nel caso dei coralli delle acque fredde del Nord Atlantico allevati in laboratorio e poi reimpiantati, abbiamo raggiunto una sopravvivenza elevatissima. Sulla scorta di questo successo, l’Unione Europea sta finanziando un nuovo progetto, il Redress, che sfrutterà dei robot-giardinieri dedicati al reinnesto di coralli e altri organismi fissili nelle zone profonde devastate dallo strascico. La sfida è quella di ridurre i costi di questi interventi, che aumentano con la profondità, perché l’entrata in vigore della legge europea sul restauro della natura, approvata il 12 luglio, obbligherà tutti gli stati membri a risanare gli habitat danneggiati e malmessi».

Per ora sappiamo che rimettere in sesto un solo ettaro di letto coralligeno rovinato dalle reti a strascico nella ‘Darwin Mound Hummocks’, che si stende a mille metri di profondità nella zona di Rockall, Atlantico di nord est, è costato più di 75 milioni di dollari. «Sì, e tanto per dare una scala di valori utile al confronto, aggiungo che i costi del restauro di ambienti abissali arati per raccogliere i noduli polimetallici, potrebbe superare i lauti guadagni della loro vendita…». E allora, professor Danovaro? «Allora, direi che, anche in questo caso, prevenire e proteggere è meglio che restaurare, anche perché, solo per curare i danni già fatti, ci vorranno molti anni». — (2. fine; la prima parte è stata pubblicata qui mercoledì 6 dicembre 2023) © RIPRODUZIONE RISERVATA

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