2 / Il gas e la guerra. Le nuove vie del metano (liquefatto e non) spiazzano e dissanguano l’Italia 

2 / Il gas e la guerra. Le nuove vie del metano (liquefatto e non) spiazzano e dissanguano l’Italia 

Per superare l’inverno, al nostro Paese mancano all’appello più di 29 miliardi di metri cubi di gas. «Sul mercato non esistono quantitativi di gas sufficienti per colmare in tempi brevi il “buco” lasciato dal gas russo», ci dicono a GasTech, la fiera internazionale conclusa nei giorni scorsi a Milano. Ai 22 miliardi di metri cubi già contrattati con l’Algeria si aggiungono i 10 miliardi in arrivo dal Tap in Puglia: 32 sui 77 miliardi di mc consumati nel 2021. A quale altro tubo del gas potremo attaccarci? Per la prima volta da molti anni, dal gasdotto di Passo Gries (proveniente dalle piattaforme offshore norvegesi acquistate dagli americani e quasi fallite), la quantità di gas entrata in Italia ha superato quella del gas russo in ingresso attraverso l’Austria: Passo Gries (Svizzera): 35,95 milioni di mc/giorno, Arnoldstein (gas russo via Austria): 35,32 milioni di mc/giorno. Agli Americani pagheremo prezzi dieci volte più alti del gas russo

L’inchiesta di LAURA CALOSSO, dalla Fiera GasTech di Milano

PUÒ LA SPECULAZIONE finanziaria arrivare al punto di innescare una guerra? In un video in rete il prof. Alessandro Barbero, storico dell’Università di Torino, spiega come in ogni società ci sia un gruppo che domina. Oggi il gruppo dominante è la grande finanza. Questo gruppo domina e dirige, spiega Barbero; e dominare significa fare in modo che le persone vedano il mondo come vuole la classe dirigente [guarda qui]. Cosa c’entra questa considerazione con il gas? Nella prima parte di questa nostra inchiesta sul gas e la guerra, riportavamo ieri analisi e valutazioni dei manager intervistati a GasTech, la fiera del settore svoltasi a Milano a inizio settembre. La speculazione sul prezzo del gas ci è stata indicata come uno dei moventi della guerra in Ucraina. Qualcuno ipotizza addirittura che la guerra in Ucraina si sia resa necessaria per coprire mediatamente la speculazione (dalla quale anche la russa Gazprom sta guadagnando molto). Se ciò fosse vero, saremmo davanti a una tempesta perfetta, forse non del tutto “naturale  e spontanea”. 

Al netto di valutazioni sull’intreccio tra finanza e geopolitica, che inverno sarà per famiglie e imprese? Avremo comunque il gas, se la Russia sospenderà  le forniture? Al momento — per sospendere — la Russia ha dichiarato di avere qualche problema con guasti agli impianti, cose già regolarmente accadute in passato, ma passate inosservate. L’interruzione volontaria della fornitura sarebbe invece una violazione dei contratti in essere. «Non è detto che avremo a disposizione il gas che ci serve» è stata la replica secca ricevuta a GasTech: «Il fabbisogno europeo ammonta a circa 160/180 miliardi di metri cubi. Da sola l’Italia ne assorbe 75 miliardi, se l’inverno è mite, 82 se l’inverno è rigido».

È possibile reperire un simile quantitativo sul mercato odierno? La risposta di tutti è stata: no. «Il problema è che sul mercato non esistono quantitativi di gas sufficienti per rimediare in tempi brevi al “buco” lasciato dal gas russo». Questa risposta trova riscontro anche nelle recenti dichiarazioni di Davide Tabarelli, analista di Nomisma Energia, secondo il quale mancano all’appello quasi 30 miliardi di metri cubi (se va bene). Facciamo allora due conti, in base ai dati che ci ci sono stati forniti: attualmente dall’Algeria (via Libia, destinazione Sicilia, Mazzara del Vallo) importiamo circa 22 Mld di mc/anno. Ce ne hanno promessi altri 3, ma potrebbero non arrivare, perché l’Algeria ha già raggiunto la capacità produttiva massima, e dovrebbe sottrarre alla Spagna ciò che vorremmo ricevere noi. Il rischio di tensioni diplomatiche è alto. Ai 22 miliardi di metri cubi dell’Algeria si aggiungono i 10 miliardi in arrivo dal Tap in Puglia. Siamo a circa 32 sui 77 miliardi di mc consumati nel 2021. 

E da dove prenderemo il resto? «Dagli americani, a un prezzo che potrebbe anche essere di 10 volte il prezzo pagato ai russi, cifra che, a dispetto di quanto si dice, non è mai cambiata, dato che il contratto di fornitura long-term, siglato dal nostro governo nel 2006, regolarmente valido fino al 2036, ne ha fissato il prezzo per tutta la  durata». Che tipo di gas importeremo dagli americani? «Dato che non c’è “il tubo” oceanico che ci colleghi agli Stati Uniti, sarà solo gas liquefatto trasportato via nave, su grandi metaniere», ci spiegano, ricordando che già nel 2019 gli Americani avevano dichiarato di voler vendere il 50% in più del loro gas all’Europa [leggi qui].

Per capire meglio il quadro della situazione, sono necessarie alcune precisazioni. Il gas naturale (metano) si estrae in forma gassosa dal sottosuolo e si immette tal quale direttamente in un gasdotto per farlo arrivare attraverso le reti infrastrutturali alle case e alle aziende degli utenti finali. Il Gnl, Gas Naturale Liquefatto (Lng nella sua espressione inglese) è lo stesso gas naturale (metano) che dopo essere stato estratto dal sottosuolo, passa attraverso la fase di liquefazione. Un impianto, il cui costo oggi si aggira intorno a un paio di miliardi di euro e che si chiama “treno di liquefazione”, porta il gas naturale alla temperatura di -165° trasformandolo in liquido. Questa operazione consente di ridurre le dimensioni di ingombro del gas, e quindi di permetterne il trasporto su nave a costi economicamente sostenibili. Per dare un’idea, un metro cubo di Gas Naturale Liquefatto corrisponde a 600 mc di Gas Naturale Gassoso. Il processo di liquefazione prevede inoltre che il gas direttamente estratto dal sottosuolo sia filtrato e depurato di tutti gli inquinanti presenti (mercurio, zolfo, idrogeno solforato, anidride carbonica), rendendolo più puro di quello che invece viene veicolato direttamente nei gasdotti. Quindi, contraddicendo la vulgata, non è il gas naturale liquefatto a essere più inquinante, bensì il metodo per estrarlo, che negli Stati Uniti ha raggiunto l’apice con il Fracking, sistema proibito ovunque, tranne negli Usa, estremamente economico, ma devastante sotto il profilo ambientale. Non è possibile sapere quale tipo di gas arriva nelle nostre abitazioni, ma se dal vostro fornello esce una fiamma viola, senza altre striature colorate, significa che si tratta di gas liquido. In atmosfera rilascia minori residui di Co2. Ha anche una resa maggiore, ma, per trasportarlo servono enormi navi. E qui c’è il nodo più grosso da sciogliere, quantomeno per l’Italia.

Tornando però alla domanda principale — da chi prenderemo il resto del gas che ci serve? — i nostri interlocutori sottolineano questo ulteriore dato: «gli Americani sono cruciali anche su altri fronti; il loro gas non ci arriva, difatti, soltanto via nave. In Italia, ad esempio, si parla poco del “quarto tubo” di ingresso del gas naturale, ma il tubo in questione attraversa il Passo Gries (Svizzera), vicino a Verbania, e collega la nostra rete alle piattaforme che estraggono off-shore al largo della Norvegia [leggi qui]. Le piattaforme sono proprietà dei giganti delle commodities: Exxon-Mobil, Conoco Phillis, Chevron, Gulf, compagnie americane. Acquistarono le concessioni alla fine degli anni ‘60 dal governo Norvegese e iniziarono a trivellare il mare del Nord trovando grandi riserve di petrolio e di gas. Negli anni ‘70 e ‘80 fecero affari d’oro con l’Europa, poi arrivò il gas russo dalla Siberia e lo scenario cambiò».

I manager del gas incontrati al GasTech ci raccontano la storia di Exxon-Mobil, Conoco e delle altre compagnie americane. Nel 2019 — essi dicono — dichiaravano di non poter più sostenere i costi di funzionamento dei loro impianti, di essere strozzate dalla concorrenza del prezzo del gas russo, molto più basso: «Sostenevano di essere da anni costrette a lavorare in perdita. Chiesero aiuto a Trump, il quale rifiutò il sostegno richiesto. Queste compagnie, con i governi europei, stipulavano contratti di fornitura marginali in forma spot al ribasso, perché la fornitura principale arrivava dalla Russia. Alla fine del 2019 minacciarono il governo Norvegese di riconsegnare le concessioni e chiudere gli impianti. Oggi sono proprio queste compagnie a godere dell’aumento dei flussi del loro gas in Europa: più del 30%. E i contratti spot hanno prezzi altissimi, legati alla Borsa di Amsterdam».

In Italia stiamo quindi ricevendo gas “americano” proveniente dalla Norvegia, via Svizzera? «Esatto. Lo ha dichiarato anche Paolo Scaroni, ex numero uno di Eni [leggi qui]». La situazione Scaroni la conosce molto bene; da amministratore delegato dell’Eni, è stato l’architetto dei contratti stipulati a suo tempo con la Russia, che hanno messo fuori mercato gli americani che estraggono nel Mare del Nord. «Qualche giorno fa — aggiunge il nostro interlocutore fra gli stand di GasTech —, per la prima volta dopo moltissimi anni, dal gasdotto di Passo Gries, la quantità di gas entrata in Italia ha superato quella del gas russo in ingresso attraverso l’Austria. Passo Gries (Svizzera): 35,95 milioni di mc/giorno, Arnoldstein (gas russo via Austria): 35,32 milioni di mc/giorno». Dal quadro emerge un riassetto strutturale delle forniture. Per questo poniamo una nuova domanda sul conflitto in Ucraina. Davvero la guerra sta ridisegnando gli scambi energetici? «Bizzarro destino — ci rispondono a fatica, vincendo la reticenza iniziale —: queste compagnie americane, grazie all’aggressore Putin, passano di colpo da un crack finanziario annunciato di enormi dimensioni, a gestire immensi extra profitti, avendo risorse per nuove trivellazioni, oltre che la riconoscenza per il salvataggio che offrono (a caro prezzo) ad alcuni Paesi, tra i quali l’Italia» [leggi qui].

E le rinnovabili? L’Italia non potrebbe puntare su quelle? La domanda viene accolta con un sorriso ironico. Del resto, siamo a una fiera del gas, non proprio il posto giusto per avere risposte circostanziate sul punto. Alla fine il commento è stato però significativo: «passando dalle forniture russe a quelle americane, che siano di gas liquefatto o gassoso, la dipendenza “da qualcuno” resta. Questo fatto continuerà a vincolarci… per “qualcuno” è importante che il vincolo resti». Appare chiaro ai manager del settore da noi intervistati che il modello di business pensato dai produttori di gas americani è orientato a esportare in Europa sempre più grandi quantità di gas liquefatto. È in quel settore che in patria stanno effettuando gli investimenti più ingenti di sempre. Si stima infatti che ad oggi gli investimenti complessivi nel Gnl rasentino quota 100 Mld di dollari, tra nuovo fracking, nuovi impianti di liquefazione, infrastrutture portuali e navi di trasporto. 

D’altra parte il GasTech lo ha confermato: la parola d’ordine in Fiera era Gnl. Tutti gli altri gas, da quelli chimici a quelli nobili per l’industria, sembravano essere scomparsi. Un manager ci confessa: «Ho chiesto ad un rappresentate di Texas Lng come potessero accollarsi un investimento da 6 Mld di dollari per realizzare due nuovi treni di liquefazione pronti tra 3 anni, in una situazione di mercato volatile come questa, e con l’idea di una transizione energetica alle porte. La sua sorridente risposta è stata “stimiamo che il Gnl sarà strategico almeno fino al 2027. Oggi serve Gnl e noi produciamo Gnl”. Ho ricevuto quasi la stessa identica risposta anche da altri, deve quindi essere una specie di mantra, perché non si è mai visto un fondo di investimento come Magnolia, finanziare un’impresa per 6 miliardi di dollari senza prevederne una capitalizzazione spalmata su almeno 20 anni. Segno che l’idea impronunciabile, ma più attendibile, è che il Gnl avrà vita molto più lunga del 2027».

E questo apre, per l’Italia, un problema infrastrutturale oggi quasi irrisolvibile: la questione dei rigassificatori, insufficienti a coprire le esigenze generate dal nuovo quadro energetico e geopolitico. Ne parliamo domani. (2 — continua) © RIPRODUZIONE RISERVATA