[L'intervista] Razzante: "La Rete mette a rischio la libertà di informazione e può rubarci le vite. Cosa fare per uscirne vivi"
Nel libro curato dall'esperto, scrittore e docente universitario i pericoli del Web e la necessità di un umanesimo digitale. Servono maggiori controlli e maggiore consapevolezza dei rischi per i nostri diritti. L'esigenza di intervento del legislatore e degli addetti ai lavori. Il ruolo determinante dei giornalisti
Le frontiere della libertà di informazione sono state modificate dall’arrivo delle nuove tecnologie. Con l’avvento dell’era digitale sono però nati anche grandi pericoli per l’esistenza e la vita dei cittadini. Mai come in questa fase storica inoltre conoscenza vuol dire potere. I colossi del Web l’hanno capito e utilizzano la forza degli algoritmi per orientare la selezione delle informazioni e indirizzare le nostre scelte, come recenti scandali hanno evidenziato. Se è vero dunque che le nuove tecnologie aprono scenari nuovi e consentono ambiti di libertà impensabili, è altrettanto vero che manipolazioni, distorsioni e prevaricazioni sono dietro l'angolo. Istituzioni, politici e addetti ai lavori devono allora intervenire per “disinnescare le insidie del Web e assicurare a tutti un'efficace tutela dei diritti”. E’ questo il tema portante dell’interessantissimo libro “L’informazione che vorrei. La Rete, le sfide attuali, le priorità future” (ed. FrancoAngeli), a cura di Ruben Razzante, docente di Diritto dell'informazione, di Diritto europeo dell'informazione e di Diritto della comunicazione per le imprese e i media all'Università Cattolica di Milano.
Il testo delinea le criticità attuali del mondo dell’informazione digitale e offre validi stimoli e soluzioni per il futuro a tutti gli interessati e in particolare agli operatori della comunicazione. Cerca di evidenziare chiavi di lettura per i cittadini “affinché - come ribadisce l’autore in questa intervista - possano sentirsi parte in causa nei processi radicali di trasformazione che interessano il mondo dell’informazione, soprattutto in Rete”.
Professore quali sono in breve le caratteristiche e i limiti della libertà di informazione nell'era digitale che stiamo vivendo?
“Le ragioni di questo libro sono proprio legate all’idea di libertà di informazione, messa seriamente in discussione dall’avvento delle nuove tecnologie. Siamo di fronte a una metamorfosi profonda nei modi di diffusione delle notizie, nella produzione dei contenuti, sempre più condivisa dagli utenti. Ciò mette in crisi le categorie tradizionali e pone nuove sfide sia agli operatori dell’informazione che a quelli del diritto. C’è dunque bisogno di riflettere sulle possibili soluzioni alle criticità evidenti, e di trovare il modo di tradurre queste soluzioni in testi di legge e codici di autoregolamentazione”.
A suo avviso cosa accadrà in futuro e in quale maniera saranno coinvolti i cittadini?
“Il futuro, come si direbbe con uno slogan, è già oggi. La velocità dei cambiamenti rende infatti precario ogni scenario. Per questo credo ci sarà una costante moltiplicazione dei canali e degli spazi informativi, un potenziamento dell’interattività. I social dovranno però convertirsi a criteri di valutazione e monitoraggio della qualità dell’informazione. Non potranno più essere luoghi di anarchia, dove tutto è consentito e mancano filtri di verificabilità delle notizie. Credo occorra andare verso una Rete più ordinata, con notizie qualitativamente migliori, questo senza nulla togliere al carattere creativo e assolutamente libero della Rete stessa, che deve restare luogo privilegiato di scambio delle opinioni e di informazione”.
Con l’avvento del Web però i colossi del settore influiscono sempre più sulle nostre scelte, e in definitiva sulle nostre vite. Quali pericoli ci sono a suo avviso in questo stato di cose?
“Alcuni pericoli li abbiamo scoperti in queste ultime settimane attraverso gli scandali. Evidentemente bisogna rinforzare i meccanismi di tutela della privacy delle persone e fare in modo che le policy interne dei colossi del Web siano sempre più vincolanti, perché se questi colossi si sentono autorizzati a utilizzare liberamente i nostri dati per finalità di profilazione commerciale, di marketing politico e così via, noi perdiamo alla fine il controllo delle nostre vite”.
Come si può far fronte a tali ingerenze e riequilibrare il diritto di informazione?
“E’ opportuno ci siano maggiori controlli, maggiore consapevolezza dei rischi riguardo ai nostri diritti in Rete, che diventiamo attenti custodi dei nostri diritti e dei nostri dati”.
Cos’è l’algocrazia di cui lei parla?
“E’ una espressione coniata nel libro per denunciare proprio il rischio che la tutela dei nostri diritti diventi arbitraria e finisca col dipendere meramente da un algoritmo, da un segreto industriale che questi giganti del Web utilizzano per incamerare utili. Se la materia prima degli algoritmi sono i nostri dati, le nostre tendenze, i nostri gusti e le nostre preferenze, l’algoritmo diventa chiaramente padrone delle nostre vite. Algocrazia dunque nel senso di consegnare a un algoritmo imperscrutabile e insondabile quelle che sono le verità su di noi in Rete”.
Si aspetta che già la prossima legislatura introdurrà normative adeguate per regolamentare il nuovo diritto alla informazione?
“Lo scopo di questo libro è proprio questo: essere una sorta di manifesto politico, di agenda delle cose da fare, speriamo già in questa prossima legislatura, anche se non è detto si possa realizzare tutto subito. Probabilmente ci sarà bisogno di qualche anno per migliorare la filiera di produzione e distribuzione delle informazioni e quindi le tutele degli utenti della Rete”.
E' convinto davvero che si farà qualcosa in fretta?
“Sono scettico. Temo che gli equilibri precari che si profilano all’orizzonte faranno si che, purtroppo, questi temi resteranno fuori dalle priorità delle forze politiche che governeranno il Paese nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Non mi faccio illusioni. Nelle prossime settimane non ci sarà probabilmente chi metterà al primo posto la tutela dei diritti in Rete, perché prevarranno altre priorità. Ritengo però che tali processi di innovazione tecnologica impatteranno in modo molto profondo sui meccanismi di rappresentanza dei nostri diritti. La stessa democrazia potrebbe quindi risentire della mancata attenzione dei decisori politici sulle questioni fondamentali e i rischi messi nero su bianco nel volume. Non si tratta del resto di temi rivolti solo agli addetti ai lavori, a chi fa informazione di professione, bensì di temi che incidono sulla vita digitale di tutti i cittadini. Un governo serio dovrebbe perciò prendere a cuore tali questioni e analizzare quantomeno le proposte di soluzione delle criticità indicate, valutandone la fattibilità su scala nazionale ed extranazionale”.
Una sua asserzione colpisce in maniera particolare, per l’alto significato anche filosofico ed etico che contiene: quella sulla necessità di giungere a un umanesimo digitale. Sembra il punto di arrivo di tutta la sua riflessione.
“Ritengo che la Rete non debba svilupparsi contro l’uomo e produrre aberranti esiti sul fronte della realizzazione dei soggetti, ma diventare strumento per migliorare l’umanità in generale. Quando accadono episodi come quelli del cyberbullismo, piuttosto che le solite violenze, gli insulti, oppure l’utilizzo del Web per finalità non proprio in linea con valori etici e morali, ritengo siamo di fronte alla parte più negativa dell’utilizzo della Rete. Umanesimo digitale significa invece riscoprire la potenzialità più evidente del Web: quella di far crescere le persone in un ambiente sano, di moltiplicare le possibilità di interazione senza che ciò si ritorca contro di loro. Se moltiplicando i parametri informativi e le possibilità di stare in Rete le persone si rovinano la vita, allora evidentemente la Rete diventa uno strumento di alienazione e non di crescita. Se diffondiamo una educazione digitale nelle scuole, una cultura a ogni livello, possiamo invece trasmettere l’idea vincente che il Web sia al servizio dell’uomo e non uno strumento di autodistruzione, come purtroppo succede con i fenomeni deteriori di cui abbiamo accennato”.
Per quanto riguarda l’informazione su Internet sono stati messi più volte in discussione il ruolo e il futuro dei giornalisti. Lei concorda sul fatto che quel ruolo, pur con i dovuti adattamenti, può trovare comunque un futuro perché servirà sempre la figura di chi filtra, verifica e legittima il contenuto che passa per la Rete?
“Se non pensassi quello che lei correttamente osserva non avrei coinvolto in questa pubblicazione il presidente dell’ordine dei giornalisti, Carlo Verna, e il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana. Con entrambi facciamo da anni discorsi sulla necessità di preservare un giornalismo di qualità, che può essere fatto da giornalisti professionisti, o in certi casi anche pubblicisti, sensibili al tema della deontologia, dei doveri nei confronti dell’opinione pubblica, e quindi del confezionare messaggi filtrati, verificati e contenenti notizie vere. In Rete viaggia una quantità infinita di informazioni spesso non vagliate e verificate, proprio perché prodotte da persone che casualmente sfornano contenuti senza essere animate da motivazioni etiche o deontologiche. Quindi la sfida è proprio questa: rendere sempre più riconoscibile il lavoro professionale dei giornalisti”.
Ma i giganti del Web recepiranno questa esigenza?
“Presto lo faranno anche i giganti del Web. Alcuni lo stanno già facendo. Facebook per esempio ha attrezzato una task force di giornalisti per individuare le fake news. Segnali arrivano anche da Google che ha concluso accordi con la Fieg (Federazione Italiana Editori Giornali) per valorizzare il giornalismo di qualità. Non sono segnali episodici ma il segno dei tempi. Dopo l’overdose di informazione indiscriminata, ci si sta rendendo conto di quanto sia necessaria una informazione di qualità, riconoscibile e tale da consentire alle persone di formarsi una opinione consapevole della realtà”.