[L'intervista esclusiva] In pensione a 67 anni, attività usuranti e donne, anziani al lavoro e giovani a spasso. La Fornero: “Ecco la verità e le bugie”

In questa intervista a Tiscali l'ex ministra del governo Monti parla a ruota libera della situazione del nostro sistema pensionistico, dei problemi, dei limiti e delle possibilità per il futuro. L'età pensionabile, la possibilità di ridurla, le pensioni d'oro, i privilegi e le ammissioni sui benefici e - perché no - i limiti della sua riforma

La discussione sull’aumento dell’età pensionabile e la previsione di deroghe per i  lavoratori di taluni settori usuranti ha fatto nuovamente decollare il dibattito sul nostro sistema previdenziale.  Una pentola a pressione in continua ebollizione. Inevitabile andare col pensiero alla donna che, in qualità di ministra del Lavoro e delle politiche sociali nel governo Monti, ha varato una delle più discusse riforme in materia: Elsa Fornero. Il suo nome suscita sentimenti contrastanti. Da una parte chi prova ammirazione per il coraggio dimostrato in un momento in cui la politica abdicò, chiedendo ai tecnici di metterci la faccia per salvare il Paese,  dall’altra chi le addebita un duro colpo ai diritti dei lavoratori e dei pensionati. Nessuna più di lei, dunque, ha i titoli per approfondire un tema tanto delicato e scottante per i cittadini  italiani. L’economista e docente dell’Ateneo di Torino ci risponde con cortesia, garbo e simpatia, prima tramite e-mail e poi al telefono, in un intermezzo tra l’insegnamento universitario e la partecipazione a importanti trasmissioni televisive.

Professoressa, dal 2019 l’età per il pensionamento arriverà a 67 anni. Di questo passo, osservano in tanti, si lascerà il lavoro giusto in tempo per entrare in una casa di riposo. Quando andrà bene.
“Si dicono molte cose, alcune parzialmente vere, altre totalmente false. L’indicizzazione dell’età di pensionamento alla longevità, ovvero a quanto ci si aspetta in media di poter vivere, è un modo per sottrarre  i cambiamenti del sistema pensionistico alle laceranti discussioni e ai conflitti che abbiamo vissuto nel passato. Quelli che, davanti alla necessità di aumentare l’età pensionabile, hanno portato a farlo solamente a partire dai giovani. Nel 2011 la situazione era drammatica, nonostante ci sia chi si ostina a dire il contrario, e non potevamo fare un intervento per cambiare tutto magari solo dal 2030 o dal 2025. Bisognava dare concretezza e credibilità alle misure”.

Adesso però i requisiti per lasciare il lavoro diventano ancora più pesanti.
“Essendo la vita media aumentata secondo l’Istat di 5 mesi, il pensionamento per vecchiaia deve spostarsi a 67 anni. Insomma, si vive di più e si deve anche lavorare di più. Le alternative del resto sono due: andare in pensione con una indennità più bassa e la prospettiva di ritrovarsi poveri e bisognosi dell’aiuto pubblico, oppure godere di una pensione calcolata secondo regole generose ma a carico delle generazioni future che avranno maggiori difficoltà al pensionamento di quanto non ne abbiano quelle attuali. Esiste però anche la possibilità di anticipare la pensione, per chi ha avuto una vita di lavoro sufficientemente lunga ( 41 anni di contributi), al compimento dei 63 anni”.

I sindacati fanno notare che ormai siamo i peggiori in Europa riguardo all’età pensionabile.
“Oggi in Italia l’età media di pensionamento non arriva a 63 anni: 62 e qualche mese. Siamo tra quelli che vanno in pensione a un’età ancora giovane e con una vita lavorativa alle spalle tra le più brevi. Dunque chi sta bene in salute e non ha una professione particolarmente usurante o faticosa, può continuare a lavorare”.

La professoressa Fornero

Si parla della possibilità di esonerare 11 categorie dall’obbligo del raggiungimento dei 67 anni. In effetti non tutti i lavoratori sono uguali e c’è chi fa lavori più logoranti di altri.
“Sono assolutamente favorevole. La riforma di cui abbiamo parlato prima (la sua, ndr) l’abbiamo adottata in tempi molto brevi: in 20 giorni. Ma sono passati 6 anni ed è ancora in vigore. Se fosse stata così negativa sarebbe stata cambiata. Una delle cose da fare negli anni successivi, con maggior freddezza e possibilità di discernimento di quanto si potesse mettere in campo nei 20 giorni di concitato lavoro del nostro governo tecnico, era proprio sancire che non tutte le professioni sono uguali, e chi ne svolge una particolarmente faticosa ha diritto di essere esonerato dalla previsione dei 67 anni. Per questo c’è l’Ape social, pur con i problemi sempre presenti quando si tratta di applicare nuove norme. Una soluzione che consente a chi ha avuto condizioni di lavoro sfortunato o precoce, a chi è disoccupato o ha un famigliare a carico necessitante di cure, di andare in pensione in anticipo senza dover metterci risorse proprie, perché se ne fa carico lo Stato”.

Insomma, la possibilità di queste deroghe non le dispiace.
“Mi piace molto perché introduce delle differenze tra categorie che vanno nella direzione dell’equità sociale. Dunque non solo dico che è giusto ma aggiungo che ciò rafforza la nostra riforma. E quando si allargano le categorie dico che va benissimo. Ovviamente si tratta di stare molto attenti a quelli che tentano di agganciarsi al treno senza averne i requisiti, perché in Italia, lo sappiamo, ci sono molte persone oneste che hanno sempre lavorato seriamente, ma anche dei furbetti pronti a intromettersi indebitamente negli spazi normativi riservati all’aiuto sociale per procurarsi un privilegio. E ciò non è corretto”.

La disoccupazione giovanile in Italia è particolarmente alta, l’Istat ce ne ha dato  conferma anche in questi giorni. Non pensa che mantenere gli anziani al lavoro comporti l’impossibilità di creare più occupazione per i giovani?
“Su questo si è detto molto, si è scritto molto e c’è molta ricerca. Ma quello del posto sottratto a qualcun altro è un falso mito che corrisponde a una idea del lavoro come quantità fissa, quella per cui se io donna lavoro, sottraggo il lavoro a un uomo. Per questo le donne sono sempre state considerate complementari. Invece il lavoro delle donne deve valere come quello degli uomini. E’ la società che deve cambiare le sue regole, le sue istituzioni, il modo in cui funziona il mercato, affinché il lavoro della donna sia non solo di complemento a quello dell’uomo ma abbia lo stesso valore e rappresenti un contributo alla società e, ovviamente, al bilancio familiare. Lo stesso deve valere per i lavoratori anziani che siano in grado di lavorare e quindi in buona salute. E non è vero che questi sottraggono lavoro ai giovani, i Paesi dove il tasso di lavoro in età anziana è più elevato (e dunque l’età del pensionamento è più alta) sono anche quelli dove è più basso il tasso di disoccupazione giovanile, ed ovviamente è  più alto il tasso di occupazione”.

Magari vuol dire che quei Paesi hanno un mercato del lavoro e uno stato sociale migliori del nostro.
“Vuol dire che non c’è esclusione e quei Paesi sono stati in grado di realizzare un mercato del lavoro inclusivo che permette alle persone di entrare senza cacciarne fuori un’altra. Da noi abbiamo un riflesso condizionato, abbiamo sempre pensato di risolvere i problemi della nostra struttura industriale, quelli della scarsità di lavoro, mandando la gente in pensione prima. Ma non ha funzionato. Invece dobbiamo pensare in termini di lavoro: per i giovani, per le donne e per i meno giovani”.

Si potrà a suo avviso diminuire a un certo punto l’età pensionabile?
“Diminuire? Certo, è già predisposto. Succederà quando andrà completamente in vigore il metodo che abbiamo scelto, ovvero quello contributivo. Per allora si prevede una metodologia flessibile di pensionamento tra i 63 e i 70 anni. Ovvero, se una persona a 63 anni vorrà andare in pensione, avendo raggiunto un minimo, potrà farlo”.

Pensionati Inps

Perché non attuare questa flessibilità subito?
“Oggi non possiamo realizzare questa flessibilità perché costa, perché ci sono persone che andrebbero in pensione senza aver versato completamente i contributi e avrebbero pensioni pagate solo in parte, o pagate da qualcun altro, ovvero i giovani, che si trovano ad avere scarsità di lavoro e per di più a dover pagare le pensioni di anziani che sono stati sicuramente trattati meglio dal punto di vista pensionistico”.

Vengono immediatamente in mente le pensioni d’oro per le quali, spesso, non sono stati versati i contributi inerenti. Effettivamente ci sono persone che godono di privilegi.
“Penso che una delle cause per cui i lavoratori italiani hanno molto sofferto la riforma del 2011 sia proprio il fatto che hanno visto molte persone con privilegi aggrapparsi in maniera indecorosa ad essi. Se ci fosse stata da parte di chi ha privilegi una maggiore sensibilità sociale, le persone avrebbero visto diversamente la riforma pensionistica e – magari senza esserne contenti, certo – l’avrebbero compresa di più. Invece questa resistenza al taglio dei privilegi, presente in categorie, arroccate nel non voler cedere nulla e  verso cui è difficile intervenire anche se si è ministri, rende tutto abbastanza difficile. La stessa Corte Costituzionale in molti casi protegge i diritti acquisiti più dei diritti non ancora acquisiti delle nuove generazioni”.

Nel frattempo i politici continuano a maturare vitalizi.
“Ho personalmente contribuito, e credo in modo determinante, a che il Parlamento adottasse la formula contributiva anche per i propri membri fin dal 1° gennaio 2012. Credo che l’unica strada percorribile sia questa. I vitalizi sono “guarentigie” poco trasparenti e scarsamente compatibili con la moderna democrazia”.

Lei ha introdotto definitivamente il sistema contributivo. Non sarebbe il caso, come proposto di recente da Tito Boeri, attuale presidente dell’Inps, di ricalcolare tutte le pensioni con tale sistema?
“Un conto è il futuro, e un conto è ricalcolare le pensioni maturate nel passato. Credo che ci si troverebbe di fronte a ostacoli insormontabili. Senza contare che la maggior parte delle pensioni retributive in pagamento, pur essendo superiori all’equivalente dei contributi versati, sono troppo basse per essere tagliate. Secondo me, la strada praticabile avrebbe dovuto essere proprio quella del contributo di solidarietà sulle pensioni più elevate. Anche in questo caso, però, la Consulta ha eccepito con un ragionamento che, al di là del conflitto di interesse, faccio fatica a considerare corretto”.

Cosa pensa del reddito di cittadinanza?
“Mi sono espressa favorevolmente quando ero ministro e non ho cambiato opinione. Tutto sta naturalmente nel vedere come lo si finanzia e come lo si applica. Nel nostro Paese gli esempi di istituti nati con i migliori obiettivi e rapidamente trasformatisi in abusi non mancano. E ciò dovrebbe indurre qualche prudenza”.

Una volta lei disse che i giovani non devono essere choosy, schizzinosi, ma non crede debbano avere il diritto a una esistenza dignitosa con un lavoro che consenta di crearsi una famiglia e un futuro? Rischiare di sacrificare le vite di intere generazioni è un dramma e lei, nata in una famiglia di operai, può comprenderlo.
“Ho già detto molte volte che la polemica sul termine choosy nacque dalla disonestà di un giornalista che attribuì a una mia frase un significato molto diverso da quello che aveva nel contesto in cui fu detta. Dissi: “Una volta raccomandavo ai miei studenti di non essere choosy; oggi non potrei più dirlo perché le condizioni sono molto cambiate…” Chiunque può controllare. Oltretutto, stavo difendendo la riforma di fronte a imprenditori che mi accusavano di avere ridotto la flessibilità, mentre io cercavo di convincerli che le nostre misure avevano l’obiettivo di combattere la precarietà, e quindi erano favorevoli ai giovani. Io lavoro con i giovani (all’Università, nell’insegnamento, nella ricerca) e penso di capire la loro legittima aspirazione a un po’ più di stabilità. Questo obiettivo era centrale alla riforma del mercato del lavoro”.

In occasione della presentazione della sua Riforma delle pensioni, parte del decreto legge “Salva Italia”, lei si commosse pensando ai sacrifici chiesti a una fascia debole della popolazione. Perché i pensionati italiani continuano ad essere colpiti dai “sacrifici”? Ci sono trattamenti al di sotto del limite “di povertà”.
“I trattamenti fino a tre volte il minimo furono salvaguardati dai sacrifici e, se posso dirlo , proprio grazie a un mio fermo intervento, che il Presidente Monti sostenne di fronte a quanti ritenevano che le misure di contenimento della spesa non erano sufficienti, nel breve periodo. Se invece parliamo di pensioni medio-alte non vedo perché, in un momento in cui si chiedono sacrifici ai lavoratori, queste debbano esserne esentate, per di più quando sono superiori, e talvolta di molto, a quanto spetterebbe in base ai contributi versati. E’ una logica di difesa dei diritti acquisiti, che non si preoccupa del fatto che a sopportare l’onere di questi trattamenti siano persone ben più sfortunate di quelle che ne beneficiano. Noi cercammo di seguire una logica di equità sia tra le generazioni, sia al loro interno”.

Professoressa, dica la verità, col senno del poi si è mai pentita di aver accettato nel 2011 di diventare ministro del Lavoro. Rifarebbe tutto ciò che ha fatto?
“Non ho mai voluto pormi la domanda. Ho interpretato il mio compito come un servizio al Paese, l’ho svolto in condizioni estremamente difficili - e non soltanto per la crisi finanziaria che stava per travolgerci, ma anche per l’isolamento nel quale mi trovai a operare, come ministro di un governo tecnico richiesto di adottare misure impopolari – con dedizione, onestà di intenti e con tutte le mie capacità. Il che, ovviamente, non vuol dire senza errori”.