[L'intervista] "Chi ha ucciso il giornalismo" e perché questo mestiere va avanti fra disprezzo ed errori

Una delle categorie più criticate e attaccate è in piena crisi a causa di fake news, siti di informazione alternativa ma non verificata, innovazione tecnologica e velocità del Web. I giornalisti servono ancora?

Lettori: di cosa?
Lettori: di cosa?

I giornalisti sono troppi, strapagati, servi del potere, capaci di stravolgere le vite della gente. E soprattutto: sono vecchi, superati, asfaltati dalle news ovunque e comunque su Web e social, poco importa che siano verificate o meno. Eccoli, li abbiamo messi tutti assieme i ritornelli urlati contro il mestiere dell'informazione che ha molte colpe ma si ostina a mantenere una missione fondamentale per il corpo sociale: spiegare, chiarire, raccontare con rigore, schierarsi anche contro gruppi di potere, sollevare le pianelle incrinate delle peggiori trame di corruzione e delle dinamiche che regolano gli affari economici, finanziari, bellici. E guardare quel che c'è dentro, anche a rischio della propria incolumità. Senza dimenticarsi di tenere lo sguardo puntato sui cambiamenti positivi di questo mondo in ebollizione. Basta questo aspetto resistente? Probabilmente no, altrimenti non avremmo titoli come Cari colleghi ci stiamo suicidando, vedi il recente numero speciale del magazine del Fatto Quotidiano, monografia delle zone d'ombra di un'intera categoria. O l'ancora più esplicito Chi ha ucciso il giornalismo? che campeggia sulla copertina di Slow Journalism, di Alberto Puliafito e Daniele Nalbone, uscito per Fandango. Ne abbiamo parlato con Puliafito, Slow News è anche il sito di cui è tra i fondatori e che propone un approccio alle news opposto a quello di cui si è ammalato il giornalismo, fatto velocità, condivisioni e click a tutti i costi

Alberto, per salvarsi il giornalismo deve rallentare e badare molto di più alla sostanza delle news. Al peso specifico, alla cura dei dettagli e degli approfondimenti. Ma in tempi di corsa su Internet è possibile farlo?
"La premessa è che il gigantismo è un problema storico del giornalismo italiano. Abbiamo sempre fatto giornali in cui mettevamo di tutto: dalle grandi analisi internazionali al gossip, convinti che così avremmo accontentato un po' tutti. Quella logica sbagliata trasferita sul Web ha preso una deriva a tutta velocità che oggi stiamo scontando. Francamente sento e leggo tanto della necessità di fare slow news, di lasciar perdere la corsa forsennata appresso ai click. Ma nella pratica di questa svolta ne vedo poca. Specie fra le nostre parti. In Italia abbiamo un modello di business legato all'informazione che è tutto da aggiornare".

Un periodo sul Web si inseguiva la mole di pagine viste, perché quel numero veniva venduto "a peso" alle concessionarie di pubblicità che piazzavano i loro banner in ogni pagina. Ora è tutto cambiato, si guardano gli utenti unici, cioè le singole persone che si sono collegate a quella data pagina di news, quanto si sono trattenuti, quanto engagement, cioè interazioni social hanno prodotto. E' un'evoluzione o l'ennesimo abbaglio?
"Le metriche restano per ora quelle che tu citi, e sono corrette. Però come vediamo si continua a parlare di quantità. La domanda è: io preferisco avere centomila lettori di cui non so niente e che stanno sulla pagina dieci o trenta secondi al massimo, come succede ora, oppure cercare la qualità e costruirci attorno una comunità di lettori più partecipe ed esigente? Intendiamoci, siamo tutti colpevoli, io per primo: ero direttore di Blogo, che ha avuto grande visibilità e buon successo e per cui dovevo garantire numeri più alti possibile. Però quella strada va a favore di Facebook, non della buona informazione. Potremmo usare il social come strumento di marketing, piuttosto che riempirlo di news leggére e trash per attirare il grande pubblico. La dico ancora più in breve la gente si accorge se scriviamo notizie pensate per loro e non solo per usare le persone come parco buoi da cui spremere click. E dopo un po' se ne va altrove".

Slow Journalism vuol dire scrivere di meno ma meglio, articoli competenti, profondi, con dati ben presentati e commentati, e uno sguardo diverso rispetto alla grande informazione generalista che fa sembrare tutti uguali i giornali storici e i tg, oppure che diventa talmente leggera da rasentare la spazzatura sui social. Ma: esiste un modello di business da costruire attorno, ad esempio, ad un bel pezzo su un Paese africano con i suoi problemi sociali ed economici che poi diventano fuga di migranti verso il mio Paese?
"No, non esiste. Quella cosa per cui si scrivevano tot news a cui corrispondevano tot necrologi e tot inserzioni pubblicitarie sta terminando. Bisogna quindi immaginare un modo nuovo di fare affari e ricavi con le notizie. Per molto tempo i finanziamenti pubblici hanno aiutato non poco i grandi gruppi editoriali, ma pure lì l'acqua comincia a scarseggiare. Che fare dunque? Provo a fare un po' di ipotesi. Numero uno, ripensare il giornalismo come servizio. Se sono un giornalista devo fare il mio lavoro cercando di intercettare bisogni, desideri, preoccupazioni reali della gente. Ci stanno provando con risultati molto interessanti quelli di The Correspondent, che ho incontrato: il loro direttore dice che bisogna smettere di occuparsi dell'eccezionalità per concentrarsi sui temi fondativi. Che vuol dire? Per esempio, che se c'è stato un incidente aereo dovrò fare un'inchiesta seria sullo stato della sicurezza dei voli e le nuove soluzioni per farla aumentare, o che se il clima diventa pazzo non posso titolare in modo da shockare la platea di lettori ma potrò fare qualcosa di più utile come spiegare le ragioni del cambiamento climatico senza cadere nei luoghi comuni. Anche perché, a dirla tutta, agli investitori pubblicitari non è mai importato granché di avere un cittadino più informato. I loro interessi sono altri".

Per parecchio tempo i finanziamenti pubblici hanno aiutato gli editori

ll nuovo responsabile del business delle news per Facebook è Jesper Doub, già artefice del modello che ha funzionato bene, con buoni ricavi, sullo Spiegel. Doub era presente anche al Festival del giornalismo di Perugia. Dove ha annunciato novità che dovrebbero agevolare le notizie: dal tasto "abbonati" per la singola testata giornalistica seguita dal pubblico social, al modo più completo in cui Facebook presenterà gli articoli delle varie testate (snippet). Inizia una nuova era o Zuckerberg, come ha già fatto in passato, sfrutta un po' le news per poi disinteressarsene e preferire altri "zuccherini" da dare al pubblico?
"Facebook ha aspetti problematici. Ha il monopolio del dati delle nostre vite e, insieme a Google, il duopolio della pubblicità. Però è ancora una grande opportunità per chi fa informazione, e lo vediamo tutti, inutile nascondersi o fare gli sdegnosi. Il punto è che se Facebook ci dà nuovi strumenti per la visibilità delle news, bisognerà capire come utilizzarli. Quando uscirono gli Instant Articles con cui il social gonfiava i numeri di audience delle notizie, in realtà Facebook continuava a raccogliere i dati dei lettori che si concentravano attorno a quel titolo. Da rivendere agli inserzionisti. Ma poniamo il caso in cui in quell'instant article c'è un mio articolo costruito molto bene, su un tema specifico, profondo e lavorato, senza fretta, e che io proponga a chi è rimasto soddisfatto di quel pezzo un abbonamento a quel genere di informazione per quattro euro al mese. Ecco, può essere un modo per fare profitto con un giornalismo serio. Basta che non sia l'unico".

Esistono anche realtà giornalistiche che organizzano eventi in cui incontrano i lettori. Una nuova voglia di contatto diretto.
"Esatto, questo è molto importante. Usare la propria piattaforma digitale per confrontarsi con i lettori che magari pagano un abbonamento mensile per quel tipo di informazione. Invece qui da noi si è diffusa la convinzione che il giornalista sia uno che sa sempre tutto. Io ho bisogno del confronto con i miei lettori (sui social cura questo aspetto Valigia Blu per esempio, Ndr) anche dei loro suggerimenti, perché no? Andare appresso al rullo di agenzia e delle breaking news rischia di farmi allontanare dalla realtà quotidiana. Arroccato dentro una redazione. Ma ci sono abbonati medici, avvocati, ingegneri, che sanno cose che io giornalista non posso sapere. E' un arricchimento reciproco che fa comunità, ecco perché vengono costruiti eventi pubblici. La comunità ha una sua forza, anche economica, che difficilmente si può incrinare. Ora che le notizie sono in Rete, i giornalisti li trovi sempre meno in mezzo alla gente. E' un problema".

Per concludere, un parere sulle due realtà giornalistiche legate al Web che più hanno incuriosito ed entusiasmato negli ultimi tempi. Open di Mentana, di cui però è venuto fuori che usa il contratto Uspi per pagare i giornalisti. Cioè 1600 lordi ad un caporedattore, 1400 lordi un redattore. Poco, con buona pace delle voci di privilegio e ricchezza della categoria. E poi Fanpage, partito con temi tira-click, leggerissimi, e cresciuto a dismisura grazie ai social.
"Fanpage è un modello un po' particolare, loro nascono puntando tutto sulla viralità che attira moltissimi click, ma più di recente stanno provando a costruire degli articoli di buon livello, competenti, lontani dal titolone ad effetto. E' un mix interessante, non so se sul lungo periodo si riesca a tenere insieme due anime così diverse. E' molto difficile. Quanto a Open di Mentana, ho avuto modo di scrivere su Fb che io non riesco a vedere la novità. Lo stesso Enrico Mentana ha risposto a quella mia riflessione, sta di fatto che se leggo quella testata mi sembra di essere tornato al 2009. Riconosco ad un grande giornalista come lui di essersi voluto rimettere in gioco, dando spazio a giovani fino ai 35 anni. Però mi sarei aspettato un prodotto diverso, innovativo, spiazzante, cosa che francamente non c'è". 

Alberto Puliafito. A destra, la copertina del libro scritto insieme a Nalbone