Lo scandalo Wirecard, parte seconda: il trionfo e i primi scricchiolii
Un grave scandalo finanziario che coinvolge la nota società di pagamenti online, dopo la scoperta di un ammanco di 1,9 miliardi di euro. Coinvolti anche la Consob tedesca, Ernst&Young e il governo Merkel
Siamo nella seconda metà degli anni ’10, la crisi del debito è ormai alle spalle, l’economia gira che è un piacere e anche gli affari della società bavarese vanno a gonfie e vele. Wirecard diviene la stella che brilla sempre di più. Più di tutti, anche della banca simbolo stesso della Germania.
La stella più brillarella che c’è
Nel 2017 il rapporto di Ernst&Young conferma che i conti della società di Monaco sono in ordine. Gli investitori vanno in brodo di giuggiole e il prezzo delle azioni in poco tempo raddoppia. il 31 agosto del 2018 il titolo raggiunge il picco di 193,10 euro, Wirecard vale più di Deutsche Bank, 21 miliardi di euro contro 20, nonostante quest’ultima abbia un fatturato di 26 miliardi di euro e Wirecard solo di 1,5. Ah la magia della borsa! Bidibibodibibu.
Il mese successivo l’azienda sostituisce Commerzbank nel prestigioso indice di borsa Dax30. Non è solo una questione di medaglie sul petto. Essere nel Dax30 vuol dire essere titolati a entrare nel portafoglio dei grandi fondi pensione. Wirecard è nel giro grosso.
Sempre più in alto
Ormai sono lontani i tempi delle scommesse online e dei siti porno. Ora non solo ti fanno entrare nel ristorante più di lusso che c’è, ma ti invitano anche nel privé, quello dove si parla di affari veri, dove vanno solo quelli che contano veramente. La notizia evidentemente entusiasma Markus Braun che, forte di una crescita del margine operativo 2018 del 38%, dichiara agli investitori che entro due anni vendite e profitti della società raddoppieranno. D’altra parte il Ceo di Wirecard è uno così, uno che se serve la spara grossa, tanto da arriva a ipotizzare che nel 2025 la società avrebbe sestuplicato i suoi ricavi. Boom!
Il visionario e l’intelligenza artificiale
Braun è innegabilmente un personaggio peculiare. Piuttosto schivo, amante dell’opera, timoroso di volare, tanto da spostarsi raramente per andare a controllare gli affari della società in giro per il mondo, gli piaceva atteggiarsi come un visionario. Nel più banale dei cliché non disdegnava di indossare ogni tanto maglioni neri a collo alto come quelli di Steve Jobs, e magari di tratteggiare da un palco il futuro che verrà.
E il suo futuro, quello che declamava ai dipendenti e agli investitori, era quello di un mondo nel quale monete e banconote sarebbero state obsolete e Wirecard, forte della sua tecnologia all’avanguardia basata sui più moderni sistemi di intelligenza artificiale, si sarebbe trovata in una posizione centrale. Per dirla con le sue parole l’azienda poteva contare su di «un data layer che ora utilizza nuovi e modernissimi strumenti nell’area del machine learning e dell’intelligenza artificiale». Che poi, sia detto tra parentesi, stando ai documenti visti dal Financial Times il tutto non era altro che un insieme di normalissimi fogli excel.
Wirecard c’est moi!
L’atteggiarsi a visionario di Braun ammaliava molto gli investitori, così come la sua sicurezza di sé, quasi sconfinante nell’arroganza. Lui era la garanzia che tutto fosse a posto e che il futuro non avrebbe potuto essere che luminoso. In un’intervista del dicembre 2014 al Financial Times, alla domanda se i numeri dell’azienda fossero falsi, Braun infastidito rispose "Stronzate! Perché dovrei fare una cosa del genere, sono un azionista della società da dodici anni, ho diretto l’azienda per dodici anni, perché mai dovrei correre un rischio del genere?".
E più recentemente si racconta che durante un incontro a Francoforte nell’estate del 2019, quando uno dei suoi maggiori azionisti gli ha fatto notare che la sua società deteneva 2,4 milioni di azioni di Wirecard, Braun abbia risposto: "Beh, io personalmente ne ho 8,6 milioni".
Ai piani alti
Ed era vero. Braun era il maggior azionista della sua società e non sorprende quindi che passasse il tempo a controllare l’andamento del titolo sorseggiando del tè alla menta. Più volava in alto più lui era ricco, e viceversa. E il viceversa non era una buona notizia per i suoi sottoposti.
Il clima in ufficio, infatti, non era proprio cameratesco. Da ex consulente, Braun era uno piuttosto formale, un atteggiamento che contrastava parecchio con il classico clima casual delle società tecnologiche. L’ufficio era a un piano il cui accesso era riservato solo ai dirigenti, ai loro assistenti e coloro che si occupavano della gestione dei pagamenti a rischio elevato come quelli dei siti di gioco d’azzardo o porno. "Sapevi che Braun era in ufficio solo perché Marsalek era in giacca e cravatta" – ricorda un ex della società.
Un ascensore portava il Ceo di Wirecard direttamente alla sua Mercedes Maybach nera e da lì a casa. Il fine settimana in genere lo passava a Vienna con la moglie Sylvia, una ex dipendente della società, e la figlia. Alla sua città natale e alla sua patria Braun è sempre rimasto legato, si è anche interessato alla politica contribuendo con 100mila euro al neonato partito liberale Neos e prestando la sua opera come consigliere esterno alla campagna del 2017 dell’attuale Cancelliere Sebastian Kurz.
L’uomo senza qualità
Ma non tuti rimanevano ammaliati dal guru tedesco della tecnologia. Hendrik Leber, ad esempio, asset manager di Acatis, un fondo di investimento, non rimase per nulla impressionato da un incontro con Braun organizzato da Goldman Sachs. Secondo Leber, quando gli venivano poste domande su questioni strategiche, tecnologiche o su possibili problemi legali Braun dava risposte evasive e piuttosto astratte. Sembrava «un uomo senza qualità» che leggeva meccanicamente i suoi appunti. Il fondo Acatis ha venduto le sue azioni poche settimane dopo l’incontro.
Il battito d’ali di una farfalla
Nonostante la puzza sotto al naso di qualche investitore, sono comunque anni d’oro, tutto va come meglio non potrebbe. Ma proprio qualche mese prima delle profezie di Braun di un futuro meraviglioso con crescite iperboliche, dall’altra parte del mondo si verificava il classico battito d’ali della farfalla.
A seguito di una soffiata interna a marzo del 2018 i legali della controllata di Singapore avviano un’indagine su tre membri del team finanziario per un giro poco chiaro di denaro verso l’India. Passano sei mesi e al Financial Times arriva una soffiata che avverte che l’indagine è stata bloccata. La soffiata è corredata dai risultati dell’indagine riassunti in una presentazione dal titolo “Project Tiger Summary” che paventa, stante la legislazione di Singapore, i possibili reati di falso in bilancio e riciclaggio legati alle operazioni messe in piedi da Edo Kurniawan, responsabile finanziario per la regione Asia-Pacifico.
Project Tiger
Il documento “Project Tiger” era stato preparato dal team legale della Wirecard per essere presentato l’8 maggio 2018 ai quattro maggiori dirigenti della società, incluso Markus Braun, e segnalava lo strano giro una serie di sospette e complesse transazioni in entrata e uscita sia tra controllate del gruppo che con soggetti esterni per un totale di 37 milioni di euro.
Tra i soggetti beneficiari segnalati nel documento vi era la Flexi Flex, un’azienda di tubi e condotte con uffici a Singapore e in Malesia il cui direttore dichiara però di non aver mai sentito parlare della Wirecard. La sua società non vende software, non ha clienti indonesiani e non si appoggia a nessuna società di pagamenti elettronici. Eppure le fatture apparentemente pagate dalla Wirecard alla Flexi flex erano relative alla fornitura di software per i token bancari a una società indonesiana del gruppo. Valore delle fatture: 3 milioni di euro.
BaFin: la solerte Consob tedesca
La storia viene pubblicata dal Financial Times il 30 gennaio 2019 e viene immediatamente bollata come “falsa” da Wirecard. Una versione che evidentemente convince l’autorità di vigilanza tedesca, la BaFin, la Consob tedesca, che avvia un’indagine sul quotidiano britannico per manipolazione del mercato.
Nonostante la smentita e la presa di posizione della Consob tedesca però il prezzo delle azioni della società di Markus Braun crolla sotto i 100 dollari, quasi la metà del picco raggiunto meno di un anno prima. Come conseguenza, e con un’azione assai singolare che desta non poche perplessità, la BaFin blocca le vendite allo scoperto per due mesi data “l’importanza per l’economia” di Wirecard e la “grave minaccia alla fiducia del mercato”. Il più brillante e celebrato gioiello hi-tech dell’imprenditoria tedesca è in pericolo e occorre proteggerlo non solo dalle insinuazioni malevole di certa stampa, ma anche dai perfidi speculatori sempre pronti ad approfittare delle difficoltà e debolezze altrui.
All’ombra dell’ultimo sole stava seduto un pescatore…
I tempi d’oro di pochi mesi prima sembrano un ricordo. E il Financial Times con le sue inchieste maledettamente accurate diviene un vero e proprio cruccio. A marzo il quotidiano finanziario pubblica un nuovo reportage in cui rivela che circa la metà del giro d’affari della società bavarese è esternalizzato presso partner sparsi per il mondo che gestiscono le transazioni elettroniche e pagano una commissione alla Wirecard.
Nulla di male, anzi potrebbe essere un buon modello d’affari. Senonché i britannici sono tipi testardi e decidono di andare a trovare qualcuna di queste società partner, sai mai che ti raccontino qualcosa. Una di esse si trova nelle Filippine, quindi armi e bagagli e si va. Dopo qualche tribolazione i giornalisti arrivano finalmente a un indirizzo, bussano e… sorpresa! Di fronte si trovano un pescatore in pensione e la sua famiglia. Sono cortesi e gentili e soprattutto molto divertiti di scoprire che la loro casa sarebbe la sede di una società di pagamenti internazionali. Puntuale arriva l’annuncio di Wirecard dell’ennesima azione legale nei confronti del giornale.
Inchiesta dopo inchiesta
Passa un mese e il quotidiano della City pubblica una nuova inchiesta. A quanto pare la maggior parte dei profitti del gruppo proverrebbe da accordi con tre partner operanti rispettivamente nelle Filippine, a Dubai e, naturalmente, a Singapore. Segue conferenza stampa di Braun che liquida le cifre riportate dal Financial Times come inaccurate. Nel frattempo Ernst&Young, in qualità di revisore dei conti, approva il bilancio 2018 della società bavarese, evidenziando tuttavia alcune questioni di carattere minore riguardo alla controllata di Singapore.
La lista inesistente
Si arriva così a ottobre dello scorso anno quando vengono fuori dei documenti, ovviamente pubblicati dal Financial Times, dai quali risulterebbe che i profitti delle controllate a Dubai e a Dublino sono stati gonfiati e che i clienti elencati nei documenti forniti a Ernst&Young in realtà non esisterebbero. Il tutto viene ovviamente smentito, ma stavolta gli investitori e gli azionisti non ci stanno e chiedono che venga condotta un’indagine a riguardo. Un’indagine vera.
La chiave di volta
L’azienda di Markus Braun stavolta è costretta a cedere e chiama KPMG, un’altra delle “Big Four”, perché indaghi e faccia chiarezza. Intanto a far luce negli angoli bui continua a pensarci il quotidiano britannico che pubblica la notizia che Wirecard conteggia nella sua liquidità le somme detenute a garanzia da società terze. In pratica riporterebbe come disponibili somme sulle quali invece non avrebbe alcuna disponibilità. Sembra solo la denuncia dell’ennesimo artifizio contabile e invece, anche se al Financial Times ancora non ne sono consapevoli, hanno trovato la chiave di volta sulla quale si poggia il sistema. La sfili e viene giù tutto.
Fine della seconda parte