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Viaggio per riconciliarsi con i nativi del Canada, la cattedra di Francesco è una carrozzella

Il Papa è tornato a Roma di buon mattino. Il viaggio diventa paradigma di Chiesa rinnovata e fraternità mondiale per la pace

Carlo Di Ciccodi Carlo Di Cicco   
Foto Ansa
Foto Ansa

Un viaggio diverso dai 36 altri viaggi che lo avevano preceduto quello di Francesco in Canada dove è andato per manifestare pentimento e chiedere perdono ai popoli indigeni per il male fatto nei loro confronti sia dalle politiche coloniali sia dalla Chiesa cattolica che, appiattita in tali politiche, si rese responsabili di gravi torti e abusi specialmente verso giovani e ragazzi accolti nelle scuole residenziali coatte. Diverso in modo evidente per la forza simbolica diffusa dalla prima volta di un papa in carrozzella. La persona di Francesco in condizione disabile, non autosufficiente per la sua mobilità, è stato il messaggio stesso dell’intero viaggio apostolico: è possibile fare un mondo più giusto e fraterno, passare dal fallimento di tristi vicende storiche alla speranza della guarigione dagli egoismi che governano il presente.

Francesco non ha dovuto spiegare perché la sua condizione fisica fosse allo stesso tempo un limite e una possibilità. Ha innovato radicalmente l’immaginario collettivo del potente che gode di tutte le fortune e di tutte le riverenze. Il bene si può fare dalla condizione di chi ha bisogno d’aiuto. Anzi è più credibile. Se tutti i poteri fossero esercitati come servizio piuttosto che come sfoggio della propria vanagloria, l’umanità farebbe passi avanti impensabili. Si paragoni papa Francesco che parla dalla loggia di san Pietro, icona somma del potere, al Francesco papa in carrozzella che chiede perdono delle colpe odiose della sua Chiesa.

Quale tra le due immagini è intrigante e convincente per annunciare la via di Gesù? Il viaggio in Canada per chiedere perdono ai nativi degli abusi nei loro confronti, è stato un messaggio fortissimo di Vangelo, una prova provata che non serve rivestirsi di potenza e privilegi per essere credibili. C’è stata la prova: lo scendere del papa nella dimensione di umanità umile e fraterna ha conquistato e garantito le popolazioni indigene che hanno fatto a gara con il papa per esprimere valori di umanità e accoglienza che il progresso senz’anima va cancellando. I nativi candesi si sono fidati di Francesco e lo hanno onorato con la sincerità del loro cuore e la spontaneità dei loro costumi.

Francesco ha trovato parole e gesti per chiedere perdono e sentirsi accolto nella loro fraternità. E’ stata una prova che il cambiamento è realistico purché lo si voglia. Le diocesi candesi coinvolte negli abusi verso i figli e le figlie dei nativi stanno liberandosi dei loro beni immobili per fare fronte al risarcimento indicato dai tribunali civili: oltre 40 milioni di dollari. Ma questo dismettere beni che sembravano essenziali apre prospettive alternative finora impensabili per una Chiesa più evangelica.

In Canada, gesti e parole si sono reciprocamente sostenuti per la loro credibilità. “La Chiesa in Canada – parole del papa nell’omelia dei vespri - ha iniziato un percorso nuovo, dopo essere stata ferita e sconvolta dal male perpetrato da alcuni suoi figli. Penso in particolare agli abusi sessuali commessi contro minori e persone vulnerabili, scandali che richiedono azioni forti e una lotta irreversibile. Io vorrei, insieme a voi, chiedere ancora perdono a tutte le vittime. Il dolore e la vergogna che proviamo deve diventare occasione di conversione: mai più!”.

Questa conversione di base rende possibile parole nuove e credibilità nuove a quanti vogliono operare per un mondo diverso dalla litigiosità presente o per una chiesa che può vivere meglio senza inutili nostalgie passatiste. Può sembrare un rompicapo che l’Occidente nato sui principi della rivoluzione francese di libertà, uguaglianza e fraternità sia stato capace di costruire un mondo coloniale.

Più volte il papa ha ricordato la distanza tra il dire e il fare nella storia dei popoli. “Questi insegnamenti vitali sono stati violentemente avversati in passato. Penso soprattutto alle politiche di assimilazione e di affrancamento, comprendenti anche il sistema scolastico residenziale, che ha danneggiato molte famiglie indigene, minandone la lingua, la cultura e la visione del mondo. In quel deprecabile sistema promosso dalle autorità governative dell’epoca, che ha separato tanti bambini dalle loro famiglie, sono state coinvolte diverse istituzioni cattoliche locali; per questo esprimo vergogna e dolore e, insieme ai Vescovi di questo Paese, rinnovo la mia richiesta di perdono per il male commesso da tanti cristiani contro le popolazioni indigene. Per tutto questo chiedo perdono. È tragico quando dei credenti, come accaduto in quel periodo storico, si adeguano alle convenienze del mondo piuttosto che al Vangelo. Se la fede cristiana ha svolto un ruolo essenziale nel plasmare i più alti ideali del Canada, caratterizzati dal desiderio di costruire un Paese migliore per tutta la sua gente, è necessario, ammettendo le proprie colpe, impegnarsi insieme a realizzare quanto so che tutti voi condividete: promuovere i legittimi diritti delle popolazioni native e favorire processi di guarigione e di riconciliazione tra loro e i non indigeni del Paese”.

Quella «storia di dolore e di disprezzo», originata da una mentalità colonizzatrice, «non si risana facilmente». Al tempo stesso, ci mette in guardia sul fatto che «la colonizzazione non si ferma, piuttosto in alcune zone si trasforma, si maschera e si nasconde». È il caso – ricorda il papa - delle colonizzazioni ideologiche. Se un tempo la mentalità colonialista trascurò la vita concreta della gente, imponendo modelli culturali prestabiliti, anche oggi non mancano colonizzazioni ideologiche che contrastano la realtà dell’esistenza, soffocano il naturale attaccamento ai valori dei popoli, tentando di sradicarne le tradizioni, la storia e i legami religiosi. Si tratta di una mentalità che, presumendo di aver superato “le pagine buie della storia”, fa spazio a quella cancel culture che valuta il passato solo in base a certe categorie attuali. Così si impianta una moda culturale che uniforma, rende tutto uguale, non tollera differenze e si concentra solo sul momento presente, sui bisogni e sui diritti degli individui, trascurando spesso i doveri nei riguardi dei più deboli e fragili: poveri, migranti, anziani, ammalati, nascituri… Sono loro i dimenticati nelle società del benessere; sono loro che, nell’indifferenza generale, vengono scartati come foglie secche da bruciare”.

Immagini forti che Francesco ha disseminato nei suoi nove interventi in occasioni ufficiali programmate. “Non abbiamo bisogno di dividere il mondo in amici e nemici, di prendere le distanze e riarmarci fino ai denti: non saranno la corsa agli armamenti e le strategie di deterrenza a portare pace e sicurezza. Non c’è bisogno di chiedersi come proseguire le guerre, ma come fermarle. E di impedire che i popoli siano tenuti nuovamente in ostaggio dalla morsa di spaventose guerre fredde che ancora si allargano. C’è bisogno di politiche creative e lungimiranti, che sappiano uscire dagli schemi delle parti per dare risposte alle sfide globali… Le grandi sfide di oggi, come la pace, i cambiamenti climatici, gli effetti pandemici e le migrazioni internazionali sono accomunate da una costante: sono globali, sono sfide globali, riguardano tutti. E se tutte parlano della necessità dell’insieme, la politica non può rimanere prigioniera di interessi di parte. Occorre saper guardare, come la sapienza indigena insegna, alle sette generazioni future, non alle convenienze immediate, alle scadenze elettorali, al sostegno delle lobby. E anche valorizzare i desideri di fraternità, giustizia e pace delle giovani generazioni. Sì, come è necessario, per recuperare memoria e saggezza, ascoltare gli anziani, così, per avere slancio e futuro, occorre abbracciare i sogni dei giovani.

Sensibili al multiculturalismo “occorre anche lavorare per superare la retorica della paura nei confronti degli immigrati e per dare loro, secondo le possibilità del Paese, la possibilità concreta di essere coinvolti responsabilmente nella società. Per fare ciò i diritti e la democrazia sono indispensabili. Ma è necessario fronteggiare la mentalità individualista, ricordando che il vivere comune si fonda su presupposti che il sistema politico da solo non può produrre. Anche in questo la cultura indigena è di grande sostegno nel ricordare l’importanza dei valori della socialità. E pure la Chiesa cattolica, con la sua dimensione universale e la sua cura nei riguardi dei più fragili, con il legittimo servizio a favore della vita umana in ogni sua fase, dal concepimento e fino alla morte naturale, è lieta di offrire il proprio contributo”.

Ma per poterlo fare la Chiesa deve guarire dalla malattia “dell’indietrismo” e farsi delle domande che aiutano a misurare la distanza tra il suo agire e l’agire di Gesù: come va la nostra gioia? La nostra Chiesa esprime la gioia del Vangelo? Nelle nostre comunità c’è una fede che attira per la gioia che comunica?”. Non basta difendersi dal mondo, ma occorre guardare il mondo alla maniera di Cristo, avere uno sguardo che discerne e si rende capace di individuare e raccogliere tre sfide in particolare: far conoscere Gesù, essere credibili nella propria testimonianza, vivere la fraternità. Si tratta di vivere una comunità cristiana che così diventa scuola di umanità, dove si impara a volersi bene come fratelli e sorelle, disposti a lavorare insieme per il bene comune. Al cuore dell’annuncio evangelico, infatti, c’è l’amore di Dio, che trasforma e rende capaci di comunione con tutti e di servizio verso tutti…La Chiesa è chiamata a incarnare questo amore senza frontiere, per costruire il sogno che Dio ha per l’umanità: essere fratelli tutti”.

Carlo Di Ciccodi Carlo Di Cicco   
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