Né Harvey né Dorian sono eccezioni, un decennio di "estremi climatici senza precedenti"
Perché un uragano si formi, occorre che la temperatura di superficie dell’oceano sia superiore a 26 gradi. E’ la temperatura dell’acqua che fa da combustibile. Questa estate, la temperatura nel Golfo del Messico è fra mezzo grado e due gradi sopra la soglia
“Un decennio di estremi” è l’allarmato titolo di un notissimo rapporto sul clima dell’Onu: gli uragani ci sono sempre stati, ma questi sono più devastanti – scrivevano gli scienziati - le inondazioni più travolgenti del solito, le siccità e le ondate di calore più aspre e penose. I fenomeni meteorologici, avvertiva il rapporto, sono sempre più fuori norma. Sono parole scritte nel 2011 e il decennio in questione era quello trascorso fra il 2001 e il 2010: gli anni delle decine di migliaia morti per il caldo, in Europa, nel 2003 o di New Orleans distrutta dall’uragano Katrina nel 2005. I dieci anni successivi hanno svuotato di significato il termine “estremi”: gli eventi eccezionali sono diventati routine. Le quattro ondate di calore che hanno tormentato l’estate 2019 degli italiani saranno, nel giro di pochi anni, la temperatura media della canicola estiva. Uragani terribili come Sandy (New York 2012, 182 morti), Harvey (Texas, 2017, 107 morti), Maria (Portorico, 2018, i morti sono stati più di 3 mila) arrivavano una volta al secolo. Oggi, i meteorologi calcolano che uragani di quella intensità si possono verificare ogni 5 o 6 anni.
Dorian, la tempesta che ha messo sott’acqua il 60 per cento delle Bahamas, dove la conta dei morti è appena iniziata, e che minaccia disastri negli Stati Uniti - anche se, forse, per il dispetto di molti, risparmierà i campi di golf di Trump in Florida – fa parte di questa categoria di superuragani, come li chiamano nell’Atlantico, mentre nel Pacifico le grandi tempeste tropicali sono tifoni, nell’oceano Indiano cicloni e, nel Mediterraneo, i miniuragani che molti si aspettano hanno già il nome, all’inglese, di Medicanes. Nel 2018, secondo i calcoli della World Meteorological Organization, gli eventi meteo che, una volta, si sarebbero definiti “estremi” – dagli uragani alle inondazioni – hanno devastato la vita di 62 milioni di persone. Il 2019 non si prospetta migliore.
E allora, è bastato che la temperatura media del globo aumentasse di un grado, rispetto all’era preindustriale – hanno commentato gli osservatori più vicini al mondo ambientalista – per avere inondazioni inattese, ondate di calore, gelate prolungate. Cosa succederà se, a fine secolo – ed è l’ipotesi più ottimistica - la temperatura sarà aumentata anche solo di un altro grado, a 2 gradi? In realtà, gli scienziati si rifiutano di attribuire un singolo evento meteo al riscaldamento globale. Ma il cambiamento climatico modifica le condizioni fisiche in cui i fenomeni meteo nascono e incide quindi, in larga misura, sulla loro qualità. In termini semplici: Dorian, come Maria l’anno scorso e gli altri uragani che ci saranno quest’anno, fino a novembre, quando finisce la loro stagione, ci sarebbero stati lo stesso. Ma sarebbero stati, probabilmente, meno intensi, meno piovosi, sarebbero scomparsi più in fretta.
Nel caso degli uragani, il rapporto con i mutamenti del clima è diretto. La prima conseguenza è scientificamente trascurabile, ma politicamente esplosiva. Perché un uragano si formi, occorre che la temperatura di superficie dell’oceano sia superiore a 26 gradi. E’ la temperatura dell’acqua, infatti, che fa da combustibile all’uragano. Questa estate, la temperatura nel Golfo del Messico è fra mezzo grado e due gradi sopra la soglia. Ma la fascia di acqua più calda, con il riscaldamento globale, si allarga verso nord e verso sud. Questo significa che i grandi uragani possono colpire aree storicamente quasi immuni, cruciali negli equilibri mondiali: non solo i Caraibi, ma anche New York o, in Europa, le coste francesi o inglesi. Nel Pacifico, non solo le Filippine, ma anche il Giappone. Ecco perché di uragani parleremo sempre più.
La seconda conseguenza del riscaldamento globale riguarda la natura degli uragani e la loro frequenza. Un mondo più caldo non significa più uragani, dicono i meteorologi. Significa più superuragani, quelli forza 4 o 5 e meno miniuragani, forza 1 o 2 (un uragano categoria 1 ha venti a 120 chilometri all’ora, uno categoria 5 può sfiorare i 300). Perché? Un grado in più di temperatura corrisponde ad un 7 per cento di umidità in più nell’atmosfera ed è questo l’innesco dell’uragano. L’aumento dell’umidità accumula energia, che si rilascia in tuoni e temporali. Più aumentano i temporali, più si rafforzano i venti, che cominciano a salire a spirale, creando un vortice: una torre di venti che girano a 100-200 chilometri l’ora. L’aria umida si condensa in nuvole e si scatena la pioggia.
Quali sono le nuove caratteristiche di questi uragani dell’era degli estremi e del riscaldamento globale? Sostanzialmente tre, tutte malauguranti: i venti del vortice sono più forti, c’è più pioggia, l’uragano si muove più lentamente. Mezzo grado in più, nella superficie dell’oceano, in partenza e i venti dell’uragano, dicono gli scienziati, saranno 25-30 chilometri l’ora più forti. I venti sono l’elemento più direttamente distruttivo, all’origine del fenomeno più temuto: l’onda che si scarica sulla costa. Quando si lancia l’allarme sul mare che sale, per via dell’effetto serra, non si pensa ai centimetri in più che guadagna ogni marea, ma all’onda che si gonfia di metri in caso di tempesta. Sulle coste americane si aspettano che Dorian scateni onde alte due metri.
Ma ancora più insidiosa – come ha mostrato l’uragano Harvey, nel 2017, nel Texas – è la pioggia che inonda la terraferma. Negli ultimi decenni, i picchi di pioggia sono saliti del 30 per cento, rispetto ai decenni precedenti. Il problema è aggravato dal fatto che questo surplus di pioggia si scarica per più tempo, perché questi megauragani sono diventati più lenti nel defluire sulla terraferma, dove, visto che la terra è più fredda dell’acqua, perdono combustibile e si esauriscono. Buona parte delle devastazioni di Harvey – “l’uragano che non se ne voleva andare” fu definito – è legato a questo diluvio interminabile. Lo stesso è accaduto ora con Dorian, che ha indugiato sulle Bahamas più a lungo di quanto si aspettassero i meteorologi. Né Harvey, né Dorian sono eccezioni: negli ultimi decenni, la velocità con cui si spostano gli uragani sull’Atlantico è diminuita del 20-30 per cento.